La resurrezione di Pancaldi
C’è un posto sull’orizzonte nella conchiglia della mia infanzia, poggiato a cavallo del ponte sul più magro dei torrenti che attraversano la statale verso Ravenna, ancora squassato dall’andirivieni inesausto dei mezzi di tutte le specie meccaniche, ma oramai depredato del dolce rimbalzo dei battibecchi umani. E non importa che infiniti siano i luoghi come questo, ove insonni ricordi si agitano e fanno naufragio: uno solo infatti è bastevole a far più pesante la terra.
Eppure ancora, se la stagione è mite e quieta la sera, passandoci ti potrà sembrare, per un attimo, di udire una voce narrante e una sommessa canzonatura.
La resurrezione di Pancaldi
Dicevo che Francesco Stagni, di Palazzo Blocchi, è stato l’ultimo narratore orale della Pianura, tale che la sua risata contagiosa ancora mi accende la memoria e alimenta il rimpianto di non averlo ascoltato e ascoltato ancora, finché ancora ne avevo il tempo, per farmi raccontare tutte quante le storie.
Francesco teneva un banco di maglieria nei mercati e in giro per la distesa provincia lo conoscevano tutti. Nel mercato di Budrio il suo vicino di postazione era un certo Pancaldi, che un fatidico martedì (martedì è, da tempo immemorabile, il giorno di mercato a Budrio) per affari suoi aveva disertato il lavoro.
«Cum éla c’an gné brîsa Panchéld?». «Come mai non c’è Pancaldi?», chiese a Francesco l’arzdaura Fedora, visitatrice immancabile, messa in agitazione dalla novità.
E Francesco, serissimo, di rimando: «An li sa brîsa? Panchéld l’é môrt». «Non lo sa? Pancaldi è morto».
Naturalmente Francesco non era uno sconsiderato e la battuta fu pronunciata per essere immediatamente recuperata. Sennonché il caso confezionò un piccolo contrattempo nella persona di un’altra cliente che, dal lato opposto del banchetto, chiese a Francesco il prezzo di un pullover cucito a rombi. E come Francesco si girò a sinistra per rispondere, l’arzdaura Fedora si girò a destra verso la sua sodale Venusta per informarla:
«Êla sintó? Panchéld l’é môrt».
In un batter d’occhio, tutto il mercato seppe che «Pancaldi era morto» e la voce arrivò anche a suo fratello che, nella costernazione, saltò sul Mosquito Garelli e si diresse a tutto gas verso casa della cognata e dei nipoti.
Pancaldi abitava una delle tante case ‘da contadino’ dei dintorni, una di quelle emozionanti dimore adagiate su un tappeto verde oro, in giusta disposizione con l’alta cascina a spioventi e il più defilato pollaio, il cotto rosso scalcinato alla base, sovrastate da fronde di ontano e acero, guardate dall’erculeo ippocastano e accarezzate dai salici piangenti: e così intatte e virginali, prima che arrivassero le piastrelle in graniglia e le staccionate di alluminio.
Io ci sono stato e ci si arriva per una cavedagna a curve larghe, passando via scoline allineate di sbieco e sobbalzando sul ponticello della Fossamarza, quasi a volo sul masnaduro abbandonato, dove alcuni plotoni di querce stormiscono nella calura estiva e, proprio come scritto sui libri di scuola, le allodole trillano altissime ed è tutto un gracidare di raganelle. In mezzo a quei vasti rumori, il lieve battito del vento accumula mucchi di silenzio; uno poteva anche non farci caso, una volta, ma se oggi gli succede di tornare, viene frastornato dalla vertigine e, socchiudendo gli occhi, ascolta il tempo come se dormisse al fondo di uno stagno.
Il fratello di Pancaldi non si metteva di certo questi pensieri, mentre faceva spolvarazzo lungo le serpentine riarse che i carri e le intemperie avevano modellato e battuto, e come sbucò sull’aia alberata vide sua cognata sovrastata e come sommersa da un gran crocchio di galline starnazzanti, mentre gli dava il frumentone.
«Non lo sa ancora… e adesso come faccio a dirglielo?», pensò.
«Bàin sa fêt qué da st’åura?». «Come mai qui a quest’ora?», gli chiese intanto la cognata.
«Sa vût mai… pasêva…». «Beh, passavo…», andava rispondendo il fratello di Pancaldi come camminasse sui carboni.
E così, tra un convenevole e una reticenza finirono per entrare in cucina, dove il nostro Pancaldi era intento a far colazione sul tavolo di ciliegio, tocciando il pane in un bel piatto di bagnolino con sugo di pomodoro e prezzemolo.
«Bàin t’î lé !». «Sei lì!», esclamò il fratello di Pancaldi facendo un salto per aria e quasi stramazzando.
E qui, partecipando alla gioia di quest’ultimo che viveva il dissolversi di una dramma, e pur tenendo conto dell’irrefrenabile potere comunicativo della risata di Francesco mentre lo andava raccontando, potremmo archiviare il racconto come labile aneddoto, se non fosse per il commento in proposito di Primàtt Mulinèla, il vecchio folle all’epoca ancora vivente presso la funtèna ed Lóppi. Ovvero la fontana disseccata nelle viscere e schiaffeggiata dagli autotreni, che da sessant’anni non butta più acqua ma che l’agrario Emilio Loup, nell’anno che non mi ricordo, per comodo dei viandanti aveva fatto fare. E Primàtt Mulinèla formulò una considerazione certo opinabile, lo ammetto, ma niente affatto ignobile: chissà che morire in una storia di Francesco Stagni non fosse un modo felice per sopravvivere al tempo.
Bombo
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