L’ultimo campo di canapa (2^ parte)
Seconda parte – Come bruciò la catasta coi sogni di Coppa Campioni
Chi ha meno di settant’anni e non è delle nostre parti, può capire solo la metà del discorso che segue, ma forse basta lo stesso. Quel pomeriggio ci giocavamo il ritorno di Bologna-Anderlecht: dopo un’aspettativa di mesi andava a compimento una storia funesta delle nostre adolescenze. I più fortunati erano sulle gradinate della Curva Andrea Costa e così, ascoltando la telecronaca dalla radiolina abbottonata nel taschino delle braghe, a grandi bracciate e con enorme forcone mi diedi a sollevare giganteschi covoni di canapa secca e ad issarli su un carro dalle altissime sponde, rimorchiato al trattore Landini che pulsava come fosse stato il cuore iroso e disperato della Pianura. Dentro un polverone di foglie esauste, il lavoro durò per l’intero arco della partita, e come sempre quando lavoravo di braccia mi si liberava la fantasia in meditazioni sui destini del mondo. Più intenso lo sforzo e più vorticoso il pensiero.
Non è facile ricostruire quali risultanze ideali si costituirono quel pomeriggio, ma sono sicuro che furono le più profonde e grandiose che mai avessi concepito. Prima la sferza del gol di Pascutti, poi la gioia selvaggia del raddoppio di Nielsen. Ma il pugno al fegato del gol di Stockman negli ultimi minuti, uno che al suo Paese giocava a calcio indossando gli occhiali scuri, giunto sotto il vortice delle polveri che mi impastavano i capelli sudati dal sole malato di settembre e occludevano le narici affamate di respiro, annullando il sentore arborico dei muschi, mi distrusse oltre il caldo e la fatica: onde, condotto fuori portata il Landini con abbaiante accelerata, decisi lì per lì di dar fuoco alla catasta.
Come un turbine improvviso spariglia il clima e tutte le cose circostanti, così immediatamente, sotto l’ultimo sole estivo, un viluppo di stecchi scoppiettanti e semenze aeree si sollevò avviluppando l’intero appezzamento, gli ontani fronzuti di rami sperticati, gli olmi vetusti di nodi contorti, i quercioli gravati di ghiande, dimora di capanne dirimpettaie dei nidi di merli nelle scorribande della mia infanzia. E me impazzito in mezzo a loro.
Fu allora oggetto della meditazione il caso. Il caso che ti aveva fatto nascere nella Bassa padana di barbabietole e canapa e non già nelle distese verde viola di azalee e begonie delle Fiandre. Il caso che ti aveva abbattuto anziché farti esplodere nel tripudio. Il caso che aveva stabilito la direzione dell’odio sportivo. Incerto e precario era dunque il tuo essere, oggetto inconsapevole di arbitrario destino. E quale ragazzo sperduto nella follia dei campi stopposi, bigi e verdognoli della declinante estate, da una voce stupenda che solo le radio di allora ti potevano dare, mi raggiunse e sovrastò il cantare della lattescente follia di Gatto, il capitano cieco. Che affabulò frasi e sillabò parole di un bosco e di dormienti. Con suadente timbro di vocali accarezzò e ne sedusse il cuore e le meningi, e in perpetuati abissi eternò un racconto di soli fiati. E come non bastasse, quasi sapessero che ad ascoltare c’era un indifeso protoplasma della sua sola coscienza cosciente, proteso in divinazione di catastrofi, qualcuno da una remota sala studi ne travolse il cervello tramortito mettendo in onda le corali meretrici a cavallo dei Carmina Burana.
Se un ragazzo affondato nella Bassa aveva tuttavia già scovato i libri per sapere di capitan Gatto, più inusitato era accedere a questi altri universi.
Al volare allora di tardive farfalle, ammonimento serale di sibille, non zufoli che lenissero il tuo dolore, non temperata melodia di clarino che ti indicasse dove andare, ma con annuncio di grancassa immenso coro come esercito schierato su percussioni di ottone e bronzo, due feroci pianoforti risoluti ad ammonire il canto, falangi di legni, oboe, fagotto, clarinetto e timpano si avvicinarono; e con arco pizzicato guardingo condottiero, con sollevazione di maree e tentazioni demoniache a rampognare subitanee le meningi, da sconosciute armate occulte al mondo mossero a passo cadenzato i distruttori manipoli del Tempo.
O rogo dell’ultima canapa della storia della Pianura, mentre ancora aveva corso l’epoca che, inesorabili nella loro lentezza, uno dietro l’altro migravano al sud i galli cedroni.
O fumana esilarante che celebrò la sconfitta calcistica al trascolorare del ceruleo cielo, sotto l’apparire e disparire tra i cirri della prima pallida luna. Così come si dava e si ritraeva di sotto le ciglia la smorfia sguincia della bambina di cui ero innamorato e di cui mi è rimasto il nome.
Bombo
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