L’oro del Reno (Epilogo: Il sarcofago del Reno)
Avevo detto che non sarei entrato a gamba tesa nella discussione sul progetto, non avrei formulato giudizi sulle finalità complessive, né avrei avanzato previsione sui risultati finali riguardanti la tranvia, e manterrò la parola: anche se l’esecuzione dei lavori avrà ripercussioni di un certo peso, per via di ubicazione geografica, sul mio modo di procurarmi il pane.
Di nuovo, e senza speranza di salvezza, metto in scena la sottrazione di paesaggio, ovvero il furto di storia, ancora una volta perpetrata ai danni dei viventi in loco.
C’era una barca di soldi da poter spendere. La logica di fondo era quella della buca scavata e poi ricoperta. Sta bene, non stiamo a sottilizzare. A coronamento della titanica impresa suppongo che si pensò di aggiungere una chicca. Da quanti anni infatti covava l’idea, caldeggiata dai pochi balzani e paventata dai più della riapertura del canale di Reno? Sono sicuro che questa idea non scaldava il cuore di nessun attore afferente il progetto. Però, perché no? Un sigillo andava posto a coronamento della fine lavori, l’apertura di trecento metri di canale tra piazza Azzarita e la chiesa della Visitazione. Sennonché questo regaluccio elargito ai bolognesi si presenta come una sorta di gioiello dentro un cofanetto malamente calpestato. Non saprei trovare altra immagine. Tanto per farmi capire meglio, tutti sanno che io sarei stato per la riapertura totale del canale di Reno, a costo di tutti i costi, nella convinzione che nel complessivo di questo ammontare di spesa si sarebbe trovato un modo anche di preservare i famosi parcheggi.
Ancora una volta penso male. Penso che ai progettisti non importasse niente del riemergere strepitoso delle acque del Reno nella città. Penso addirittura che per questa gente pratica fosse un fastidio, una variante buttata lì, un azzardo esposto al rischio rigetto da parte di detrattori e residenti, buono appena per darsi un po’ di lustro culturale, accattivarsi al massimo qualche simpatia anche presso rompiscatole come me, ma privo di intelligenza profonda. L’intelligenza è qualcosa che s’incarna nella passione.
Il fatto è che la situazione era già stata compromessa dalla peste modernista di sessanta anni fa. Il sarcofago.
Il sarcofago adesso potete vederlo, solo che andiate a sbirciare i lavori attraverso le reti di protezione. Come faccio io. Il canale di Reno in certi punti era ben largo. Troppo spazio sprecato. A cosa doveva servire sennò il cemento armato? Nell’epoca d’oro del calcestruzzo e della putrella, un bello e spesso scatolone allungato a serpentone fin verso Marconi. Nei vuoti laterali e profondi, tamponamento con terra e malta magra. Sopra, l’asfalto e buonanotte.
Però, sotto via della Grada e lungo la sponda prospicente la chiesa della Visitazione, proprio lì dove aprono il canale, le vasche delle lavandaie ci sono ancora. Sono seppellite. Ma ci sono. E non doveva essere questa, ora o mai più, a estremo sfogo dei rimpianti, a estremo affrancamento del gusto in capo all’italico geometra collettivo, l’occasione per riesumare un pezzo della nostra storia? Avevo già notato come, per verificare lo stato di certe murature sotto la carreggiata, avessero fatto scalpellare la pavimentazione. Era saltato fuori qualcosa di emozionante, eccome! Acciottolati screziati. Laterizi ocra e vermiglio. Forte l’evidenza di poter mettere in vista un po’ di archeologia del Novecento… Ma niente da fare. Mettiamoci il cuore in pace. Lo stilema sarcofago ha vinto. Sarà un vascone con le spallette ben dritte e tirato a lacca. Mortifero come una lapide cimiteriale da lustrare tutti i giorni. Come la facciata marmorizzata, lì sulla scomparsa casa del guardiano al numero 53, che gli farà da algida e arcigna sentinella. Non credo che saranno una fila di alberelli e quattro panchine ad infondergli polpa e respiro.
Bombo
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Foto copertina: zerocinquantuno.it
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