Mariani: “Riguardo spesso il mio gol agli Hearts, quel Bologna non meritava la B. Sinisa è di un altro pianeta, con lui si può andare subito in Europa”
Se si scende sempre in campo con il coltello tra i denti e si onora la maglia in ogni occasione, si può rimanere nel cuore dei tifosi anche vivendo annate con molte più ombre che luci. È il caso di Pietro Mariani, per tutti ‘Pedro’, instancabile e grintoso motorino di fascia che all’inizio degli anni Novanta ha collezionato 72 presenze e 4 gol in rossoblù. Stagioni buie, se si esclude qualche magica notte europea, eppure Mariani sotto le Due Torri è ricordato con piacere e belle parole, lui che decise di restare anche dopo la dolorosa retrocessione in Serie B del 1991 e che da Bologna non se ne sarebbe mai andato. Oggi, alle soglie dei 58 anni, lo abbiamo ritrovato ancora innamorato pazzo del calcio, del guerriero Sinisa Mihajlovic e di una città che non ha mai dimenticato. Perché alla fine (anche se talvolta sono davvero difficili da digerire) i risultati passano, ma l’amore vero resta.
Pedro, cominciamo da te: di cosa ti occupi al momento? «Sono il direttore tecnico della Matera Sport Academy, una società molto grande e importante che ne ha inglobate altre della zona ed è poi entrata a far parte del network Juventus Academy, arrivando a gestire circa mille tra bambini e ragazzi. La dirige Claudio Calabrese, mio ex compagno di squadra al Benevento con cui ho condiviso anche l’esperienza del Camp Mitico Villa a Bernalda: mi ha affidato il compito di far crescere i vari allenatori migliorando le loro metodologie di lavoro, avendo io già rivestito un ruolo analogo a Chiusi, inoltre faccio anche da collante tra la società e alcuni club professionistici, qualora volessero mettere gli occhi sui nostri giovani talenti. Adesso siamo in attesa di ripartire ma la vedo dura, non sarà semplice».
A proposito di ripartenza, sei ottimista sulla Serie A? «Siamo un po’ tutti in trepidante attesa e la voglia di rivedere una partita in Italia, almeno da parte mia, è grande. Ansie e preoccupazioni sono però comprensibili, lo vediamo anche nella vita quotidiana, la gente ha perso la serenità. Io poi non vorrei essere nei panni di chi comanda, considerando che il calcio è la terza industria del Paese e muove una marea di soldi, basti pensare al braccio di ferro con le pay TV. Inoltre, per rispettare i protocolli e concludere la stagione, i club dovranno sborsare altro denaro, unito a quello degli stipendi dei giocatori: mi auguro che almeno quelli di A rinuncino a qualcosa, ma la crisi si farà comunque sentire, tutte le società subiranno dei contraccolpi. Senza dimenticare che, una volta finito questo campionato, bisognerà subito pensare al successivo, da terminare in tempo per gli Europei. Insomma, c’è poco tempo e tantissimo lavoro da fare».
Una cosa è certa, purtroppo: si giocherà a porte chiuse e con mille precauzioni. «Sono stato calciatore e so bene che giocare senza pubblico è una delle cose più orrende che possano esserci. È come se un attore andasse in scena e si trovasse davanti un teatro vuoto, uno spettacolo desolante. Stiamo però vivendo una pandemia di proporzioni epocali e la parola d’ordine ancora per molti mesi sarà ‘prudenza’, dobbiamo adattarci a vivere in un mondo diverso da quello che eravamo abituati a conoscere. Posso immaginare la frustrazione dei tifosi ma, per evitare che l’industria calcio imploda, bisogna provare in qualche modo a riprendere, con la speranza di poter tornare quanto prima alla normalità e agli stadi pieni».
Vedresti di buon occhio una formula con playoff e playout? «Spero che almeno in A e in B si riparta con l’idea di completare le restanti giornate. Qualora ci si dovesse fermare di nuovo, sarei per congelare le classifiche e premiare il merito sportivo acquisito sul campo fino a quel momento, come è stato fatto in Francia. So che sarebbe doloroso, specialmente per le squadre ancora in lizza per un piazzamento di prestigio o per la salvezza, ma non cancellerei quasi sette mesi di campionato con degli spareggi. Vedo che ogni presidente prova a tirare l’acqua al suo mulino, ed è comprensibile, ma vista l’eccezionalità delle circostanze sarà impossibile accontentare tutti: la soluzione ideale non esiste».
Senza voler minimizzare l’impatto del COVID-19, forse ora il rischio principale per i calciatori è legato agli infortuni più che al contagio… «Anche se la tua società è super attrezzata e ti fornisce pesi, bilancieri e tapis roulant, il lavoro che farai a casa non sarà mai uguale a quello sul campo. Adesso è come se il campionato fosse finito e le squadre si ritrovassero dopo le ferie per iniziare la preparazione estiva, ma il tempo a disposizione non è sufficiente: in ritiro fai venti giorni di carichi allucinanti e poi ricerchi il ritmo partita tramite amichevoli leggere, qui invece i giocatori saranno subito impegnati in sfide decisive, con una sollecitazione impressionante di ginocchia, caviglie e tendini. Spero di sbagliarmi, ma temo che quello di Ibrahimovic non sarà un caso isolato».
Ci apprestiamo a vivere un mini torneo pieno di incognite: credi che il Bologna, trascinato da un Mihajlovic carichissimo, possa tentare l’assalto all’Europa? «Sinisa è una roba incredibile, è come uno straordinario pilota di Formula 1 che riesce ogni volta a tirar fuori dalla macchina quel mezzo secondo decisivo. E mi sembra che la malattia lo abbia reso ancora più forte e consapevole, smussando quegli angoli del suo carattere che ad alcuni giocatori erano congeniali ma ad altri facevano un po’ tremare le gambe: è il solito guerriero, ma più saggio ed equilibrato. Ora che può di nuovo stare sul campo, rimanere sempre sul pezzo anche di persona e bacchettare i suoi ragazzi da vicino, penso che il Bologna non debba porsi limiti. Fin qui la squadra, salvo qualche momento di défaillance assolutamente comprensibile, se l’è sempre giocata a testa altissima contro chiunque, quindi all’ingresso in zona Europa League io ci credo».
C’è un giocatore della rosa attuale che ti piace particolarmente? «Non ce n’è uno nello specifico, ad essere sincero posso dire che nell’ultimo anno sono proprio tornato a guardare volentieri tutto il Bologna, era bellissimo vederlo all’opera. Puoi vincere, perdere o pareggiare, ma se una squadra non ti appassiona fai fatica a seguirla, in certi periodi lo fai solo per puro amore verso i tuoi colori. E poi ripeto, l’uomo simbolo è Mihajlovic, mi ha emozionato a tal punto che spesso tenevo gli occhi fissi più su di lui che sul campo. Ogni tanto penso: questo aveva la leucemia e andava in panchina ad allenare, pazzesco! Non c’è niente da fare, Sinisa è di un altro pianeta. Vederlo comparire a Verona e poi al Dall’Ara in quelle condizioni, nel pieno di una battaglia, di un dramma personale e familiare, e poi ascoltare le sue parole e osservare le sue lacrime in conferenza stampa, sono cose che mi hanno toccato nel profondo: ha regalato a tutti noi una straordinaria lezione di vita e di coraggio. Anni fa me lo sono trovato di fronte da avversario, ma appena si potrà mi sono ripromesso di auto-invitarmi a Casteldebole per incontrarlo e abbracciarlo: l’ho sempre stimato come uomo e come calciatore, ma adesso ancora di più».
Facciamo un tuffo nel passato rossoblù, anche se con un po’ di amarezza: come si fa a finire in B dopo aver sfiorato le semifinali di Coppa UEFA? «Nel campionato 1990-1991 avevamo una buonissima squadra, potevamo salvarci senza fatica e ambire anche a qualcosa in più, ma subimmo una serie di infortuni da Guinness dei primati, trovandoci spesso con dieci-dodici giocatori contemporaneamente in infermeria. Uno dopo l’altro perdemmo Bonini, Cabrini, Cusin, Detari, Poli, Tricella, Villa, Waas, un massacro, ricordo che dovette addirittura giocare il terzo portiere Valleriani e che esordirono i giovanissimi Anaclerio, Campione, Negro e Verga. Pur senza essere mai al completo, ce la giocavamo quasi alla pari con tutti, tant’è che arrivammo ai quarti sia in Coppa Italia che in Coppa UEFA, dove uscimmo contro lo Sporting Lisbona per l’unica maledetta zolla del Dall’Ara che tradì Turkyilmaz davanti al portiere. Fu un vero peccato, anche perché avevamo eliminato l’Admira Wacker e agli Hearts allenati da Jordan con due vere imprese, ribaltando il risultato al ritorno. L’anno dopo in B, invece, dovevamo e potevamo fare di più: quella rosa, grazie in particolare agli innesti di Baroni, Gerolin e Incocciati, era davvero forte per la categoria, ma accusammo più del previsto il colpo della retrocessione».
Nonostante tutto, qui i tifosi hanno sempre avuto grande stima di te: perché andasti via? «Passai al Venezia nell’estate del 1992, restando comunque a vivere sotto le Due Torri nei tre anni successivi. Non me ne sarei mai andato, ma il club era in grossi guai finanziari e se non altro dalla mia cessione incassò qualcosa. In tutte le piazze in cui ho giocato mi ricordano come uno che in campo dava sempre tutto se stesso, e questo per me è motivo d’orgoglio e ha un valore inestimabile, equivale ad aver vinto qualcosa di importante. Perché quando la carriera finisce devi fare i conti con quello che hai lasciato dietro di te, e non è facile essere apprezzati un po’ ovunque. Io poi ho sempre avuto un forte spirito comunicativo, anche a Bologna amavo stare in mezzo alla gente, girare per le vie del centro, andare nelle locande a mangiare e a bere qualcosa, e alla fine si faceva mezzanotte perché qualcuno mi riconosceva e si facevano quattro chiacchiere. Bei tempi… Mi manca Bologna, mi manca il suono dell’accento bolognese e l’affabilità delle persone, ho già detto a Villa e ad altri cari amici che tornerò presto a trovarli».
Il ricordo più bello? «Senza dubbio il gol del 3-0 agli Hearts, quello della qualificazione, e la mia corsa liberatoria sotto la Curva Andrea Costa. È anche su YouTube e ogni tanto me lo vado a rivedere… Che meraviglia i tifosi rossoblù, li porterò sempre nel cuore».
Simone Minghinelli
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