L’ultimo paradosso: calcetto sì, pubblico negli stadi no
Il 15 giugno dieci amici potenzialmente positivi al Coronavirus potranno giocare liberamente a calcetto, mentre altri 200 (il limite consentito per le manifestazioni al chiuso) potranno trovarsi in un teatro con capienza massima di 1.000 posti. Dal 22 giugno, però, guai a far entrare anche solo dieci spettatori negli stadi di Serie A. Questo è l’ultimo paradosso di un Governo che detesta il calcio a tal punto da consentirgli di ripartire solo a porte chiuse, contro ogni logica e buonsenso, mentre tutto il resto del Paese, dalle manifestazioni dei terrapiattisti arancioni alla movida milanese, è già felicemente proiettato all’assembramento indiscriminato.
Se tutte le manifestazioni all’aperto possono, da protocollo sanitario, radunare fino a 1.000 persone (la ragione per cui l’Arena di Verona riuscirà ad organizzare un festival anche nel 2020), non si capisce perché negli stadi italiani potranno entrare solo i giocatori e gli addetti ai lavori. Né si capisce perché il Comitato tecnico-scientifico abbia tenuto duro sulla necessità di quarantena di gruppo in caso di rilevata positività di un atleta, l’ostacolo che in questo momento frena più di ogni altra cosa la ripartenza del pallone. Perché la Serie A deve essere più controllata di un bunker atomico, quando ai club sono già state imposte spese per decine di migliaia di euro per controllare i tesserati ogni quattro giorni attraverso i tamponi?
La risposta è sempre quella: demagogia. La stessa, strisciante, untuosa retorica che anima i Savonarola contro i calciatori strapagati, contro Cristiano Ronaldo e i suoi 31 milioni netti l’anno. Peccato che altri 31 vadano nella casse dello Stato in tasse. Cioè a noi. Odiare e boicottare il calcio significa una sola cosa: danneggiare il Paese. Ricordatevelo quando ‒ e se ‒ tornerete a votare.
Luca Baccolini
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Foto: Damiano Fiorentini