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Beba: “Con la Vecchia Guardia mantengo una promessa e ricordo tanti amici. Non posso fare a meno del BFC, così come il calcio non può vivere senza tifosi”

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Il mondo ultras non è qualcosa che si può giudicare in modo leggero dall’esterno, né esaltandolo a dismisura né puntandoci contro un dito accusatorio. Se si vuol provare a comprenderlo, o quantomeno a conoscerlo meglio, bisogna entrarci in un punta di piedi e ascoltare: lunghi racconti o brevi aneddoti intrisi di orgoglio e passione, fratellanza e senso d’appartenenza, al ritmo dei tamburi, nella nebbia colorata dei fumogeni. Come quelli di Daniele Torrisi, per tutti ‘Beba’, classe 1962, uno dei leader storici della Curva Andrea Costa e fondatore nel 2001 del gruppo Vecchia Guardia. Oggi per Zerocinquantuno ho avuto il piacere di parlare con lui, avvicinandomi un po’ di più a questo microcosmo che in realtà è un universo, e ne è scaturito un affascinante viaggio a tinte rossoblù tra passato, presente e futuro. Perché, come mi aveva detto un caro amico a cui mi ero rivolto per prepararmi all’intervista, «dove c’è il Bologna c’è Beba».

Beba, per iniziare torniamo alle origini: come ti sei avvicinato al tifo organizzato bolognese? «Ho cominciato da adolescente negli anni Settanta, avvicinandomi agli Ultras e ai Commandos, eravamo i ragazzi del ‘Bimbo’ (Roberto Melotti, fondatore dei primi gruppi ultras della Curva Andrea Costa, ndr), e ho fatto strada con loro. Ricordo ancora i ritrovi allo stadio alle 9 della domenica mattina per montare gli striscioni e i tamburi in Curva, di tamburi ne avevamo 25-26 di media e c’erano anche le trombe. Oppure quelli di sabato al bowling, per organizzare la trasferta del giorno dopo. Questione di mentalità e amore, di sciarpe e di bandiere, con la voglia di seguire il Bologna sempre, comunque e ovunque. Un po’ alla volta ho conosciuto meglio i veterani, che mi hanno trasmesso tantissime cose, e a loro ho fatto una promessa».

Quale? «Te lo spiego subito… Sono stato più di 25 anni nei Forever Ultras, nati nel 1974, e ho visto andarsene tante delle persone che mi avevano dato il via e con cui ero cresciuto. Mi ripetevano sempre: “Beba, quando non ci saremo più dovrai essere tu a portare avanti il nostro progetto, non dimenticarti mai di noi”. Io ho tenuto fede a quell’impegno e nel 2001, proprio per ricordare e omaggiare quei vecchi amici che ormai erano lassù, oltre che nel mio cuore, ho creato la Vecchia Guardia».

Insieme a Daniele ‘Lelone’ Barbieri, giusto? «Sì, io e Lele ci conosciamo fin da bambini, avevamo 6-7 anni. Lui era nei Mods (nati nel 1982, ndr) e io appunto nei Forever, un giorno gli ho spiegato le mie intenzioni e lui non ha avuto dubbi: “Beba, conta su di me, sarò al tuo fianco”. E così è stato. Adesso siamo io, Lele e gli altri della nostra età che proviamo a trasmettere ai giovani quanto abbiamo ereditato nel corso del tempo: il tifo incondizionato, l’amore per la maglia, la difesa dei colori. Perché un domani toccherà a loro sostituirci e proseguire il cammino».

Avete dei bravi ‘allievi’? «La mentalità c’è, diciamo che rispetto ad altre piazze ci mancano un po’ i numeri. A Bergamo, per esempio, la Curva attinge anche da tutti i paesini della provincia, ci sono centinaia di ragazzi appassionati e quindi un ricambio continuo. Discorso simile per la Torino granata, mentre Roma è un po’ calata ma comunque si difende bene. Certe tifoserie, inclusa la nostra, sono proprio belle da vedere, perché continuano a crederci, e in qualche modo ti riportano ad un calcio che ormai non c’è più. Sono cambiate e stanno ancora cambiando tante cose, soprattutto per colpa dello Stato, ma il DNA ultras non cambia, andiamo avanti anche se oggi il calcio è business. Questo ragionamento mi riporta alla mente una frase di Beppe Signori, che si può adattare a molti ambiti».

Grande Beppegol, sono curioso… «Mi ha detto: “Se adesso a fine allenamento ti fermi a provare qualche punizione, non ci sono più i giovani che stanno lì con te o che magari ti aspettano per portarti la borsa, se ne vanno subito a casa”. È proprio così, è finita l’epoca dei Signori, degli Andersson e dei Nervo, che alla maglia ci tenevano per davvero, così come per noi ultras di lungo corso non è facile far capire certe cose che ci portiamo dentro ai ragazzi di oggi. Però, come spiegavo prima, ho fatto una promessa e per mantenerla lotterò con tutte le mie forze finché sarò in vita».

Guardando indietro agli anni della B e della C, prevale l’amarezza per aver visto il Bologna cadere così in basso o l’orgoglio per esserci sempre stato? «Ho visto la A, la B e la C, le semifinali di coppa e i fallimenti, di tutto e di più. Emblematica fu l’estate del 1982: mentre l’intero Paese festeggiava la vittoria al Mondiale di Spagna, noi piangevamo per la prima retrocessione in Serie B del Bologna. Quella fu davvero una botta tremenda, abituati come eravamo ad essere considerati una delle squadre più importanti d’Italia. Poi però tocchi con mano anche la C, vedi addirittura fallire il club, e capisci che nella vita le cose belle finiscono. Ma allo stesso modo finiscono anche quelle brutte, tutto passa e si rialza la testa, dimenticando le delusioni e le amarezze. Sembra ieri che eravamo in trasferta all’Olimpico e il COVID ci è arrivato tra capo e collo. Eppure è già trascorso più di un anno e a settembre, grazie ai vaccini, speriamo di poter tornare al fianco del nostro Bologna».

Anche per una questione di ‘balotta’, oltre che di tifo, suppongo. «Certo, il BFC viene prima di ogni altra cosa, ma pure lo stare in compagnia è fondamentale. Per anni e anni ho mangiato solo panini (ride, ndr), poi con la Vecchia Guardia ho cominciato a organizzare le trasferte in una certa maniera: si va a pranzo con calma tutti insieme, poi si va a vedere la partita e alla fine via di nuovo sul pullman verso casa. Nel nostro percorso abbiamo girato l’Italia in lungo e in largo e visto posti bellissimi, mangiando davanti al mare o alle montagne, in agriturismo e nel centro delle città. Poi si vince, si perde o si pareggia, si festeggia o ci si incazza, ma rimangono i bei momenti vissuti assieme, quelli che una volta immortalavamo con le macchine fotografiche e adesso coi cellulari. Le stagioni passano ma noi non abbiamo nessuna intenzione di fermarci, anzi, attendiamo con ansia il nuovo Dall’Ara».

Il calcio in TV, per di più senza pubblico, riesci a guardarlo? «A casa ho tutto ma faccio fatica a starci, appunto sono uno da stadio e da trasferta, considera che me ne mancano circa 200 per arrivare a 1.000. Purtroppo, considerando che non era possibile vedere le partite neanche nei bar e nei pub, mi sono dovuto rassegnare a guardarle da solo tra le mura domestiche, perché non posso fare a meno del Bologna. Ogni giorno, però, sogno il momento in cui rimetteremo piede sugli spalti, e credo sia un sogno comune a tutti i tifosi, da Torino a Palermo».

Direi che sia anche il sogno, o meglio il bisogno, delle società. «Non solo delle società, che senza incassi da botteghino hanno tirato avanti coi soldi di Sky e in alcuni casi ne hanno pure approfittato per riversare sul COVID la colpa di passivi frutto di gestioni scriteriate, ma anche dello Stato, visto il giro d’affari che i tifosi muovevano ogni weekend tra ristorazione, carburanti, mezzi di trasporto e così via. Già prima della pandemia ci si lamentava per la scarsa affluenza di pubblico negli stadi, senza però fare nulla di concreto per cambiare le cose, adesso spero che tutti si siano resi conto una buona volta cosa significa il calcio ma più in generale un Paese privo dei tifosi: senza di noi il loro business non sopravvive a lungo».

Ora ci tengo a chiederti qualcosa su tre personaggi della recente storia rossoblù, ognuno a suo modo molto importante: il primo è Giuseppe Gazzoni Frascara, con cui hai avuto un rapporto speciale. «Il signor Gazzoni, o ‘Gazza’ come lo chiamavo affettuosamente, ci ha fatto sognare, regalandoci dei giocatori che al solo pensiero mi emoziono. Ci siamo anche scontrati, chi può dimenticare il battibecco in diretta su Rete 7, ma eravamo amici e c’era un enorme rispetto reciproco. Un anno fa ho avuto il privilegio, pur in una giornata triste, di essere presente al suo funerale, e lo ricorderò sempre come un grande presidente e una persona garbata e di classe, ma soprattutto buona. Troppo buona, infatti in quel mare di squali ci ha rimesso più di tutti».

Il secondo, che hai già citato, è Beppe Signori, appena uscito pulito e a testa alta da una vicenda giudiziaria lunga dieci anni, quella legata al calcioscommesse. «Beppe non ha mai fatto mistero della sua passione per le scommesse, ma nei limiti della legalità e del consentito. Ho sempre creduto che fosse stato preso in mezzo, avrebbero dovuto pagare altri ma lui era il nome grosso e gli hanno addossato tutte le responsabilità, rovinandolo. Ci siamo parlati al telefono qualche giorno fa e ovviamente l’ho sentito molto sollevato, ora sta lavorando ad una sorta di docufilm sulla sua carriera che uscirà prossimamente (per la Genoma Films di Paolo Rossi Pisu, ndr). Non appena mi risponde gli dico: “O capitano, mio capitano!”, e lui è contentissimo (ride, ndr). Ho anche il suo autografo tatuato sul polpaccio, frutto di una promessa fatta prima che lasciasse il calcio, e non dimenticherò mai la sua firma in bianco nel 2003: per lui Bologna non era una questione di soldi, esisteva ed esiste ancora un legame molto più profondo».

L’ultimo, in ordine cronologico, è Sinisa Mihajlovic, col quale ti sei confrontato insieme ad altri esponenti della Curva dopo il famigerato episodio del pullman: secondo te resterà a Bologna? «Io sono convinto che rimanga, salvo offerte davvero clamorose. Ma non tanto sul piano economico, perché qui comunque prende 2 milioni ed è una cifra che non molti possono garantirgli, parlo a livello di traguardi. Anche nel suo caso si è creato un legame particolare con la città, che gli è stata vicino durante il periodo della malattia e lo ha trattato come un figlio, e poi come si dice: “Chi lascia la strada vecchia per la nuova…”. E in tal senso Bologna è una ‘strada’ meravigliosa, qualsiasi ex rossoblù ne parla benissimo e molti sono pure rimasti a viverci. Qui si sta fin troppo bene perché noi bolognesi diamo tutto e siamo fin troppo buoni, col rischio di passare per coglioni, mentre in altre piazze alla prima sconfitta ti trovi la gente fuori dai cancelli. Però occhio a non farci arrabbiare, perché quando i buoni si arrabbiano…».

Se ti dico 29 novembre 1998, quali sono le prime sensazioni che riaffiorano? «Una gioia incredibile, senza confini. Puoi battere l’Inter, il Milan, la Roma o qualsiasi altra squadra più quotata, ma sconfiggere la Juventus per noi non ha eguali. Io di vittorie memorabili ne ho vissute parecchie, magari in rimonta o all’ultimo secondo, ma quella fu una goduria unica, sia per la prestazione che per il risultato: Paramatti, Signori, Fontolan, 3-0 in neanche mezzora, li mandammo al tappeto».

E domenica sera come finisce? Credi nell’impresa? «In questi giorni si sta parlando tanto, o meglio si sta sognando, ma la Juventus deve andare in Champions, ci sono parecchi soldini in ballo, anche se quando sento Andrea Agnelli lamentarsi e dire “non ce la facciamo più” mi scappa da ridere. Certo, la palla è rotonda e gli striscioni d’incoraggiamento fanno piacere, ma visto che un po’ d’esperienza ce l’ho consiglio a tutti di non illudersi. Ci hanno già messo fuori causa Soriano e Dijks, e poi devo anche ammettere che la squadra mi sembra già in costume e infradito, manca solo il telo mare, e la cosa mi infastidisce. Mi dispiace per i nostri tifosi, dal bambino fino a quelli di 70-80 anni che il desiderio di battere la Juve lo covano sempre, ma nel calcio attuale non c’è molto spazio per le favole. Basterebbe un pareggio per fermarli, lo so, e forse in un altro momento del campionato sarebbe potuto accadere, ma temo che adesso serva un miracolo».

Anche per rivedere il BFC giocare in Europa servirà un miracolo o sei convinto che con Saputo ce la faremo? «A cominciare dagli anni Ottanta-Novanta, il divario tra le cosiddette big e le altre si è allargato sempre di più, certi giocatori se li possono permettere solo una ristretta cerchia di squadre ed entrare nei primi sei-sette posti è difficilissimo. Gazzoni riuscì a portarci in Europa, ma a che prezzo? E non va dimenticato che oltre ai Baggio e ai Signori c’erano anche molti giocatori in prestito che cambiavano ogni anno, mentre ora la musica è diversa, sono tutti di nostra proprietà e gli altri club vengono a bussare alla porta del Bologna. Credo che il progetto intrapreso coi giovani sia interessante e sensato, e che aver trovato sulla nostra strada un presidente come Saputo, dopo tanti soggetti rivedibili, sia stata un’enorme fortuna. Specialmente adesso che diversi club, gestiti male e affossati ancora di più dal COVID, non hanno neanche i soldi per pagare gli stipendi, l’Inter è solo un esempio ma sono curioso di vedere in quanti si iscriveranno senza patemi al prossimo campionato… Al signor Saputo auguro di riuscire a fare quello che ha fatto il signor Gazzoni, anche perché ci tengo a tornare a Bruxelles, Istanbul, Lisbona, Londra, Marsiglia, Praga e così via: ho ancora tutti i biglietti di quelle partite, sono ricordi preziosi che nessuno mi porterà mai via».

Simone Minghinelli

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Foto: Vecchia Guardia