Làbas, un municipio sociale dedicato alla collettività (1^ parte)
Chi può definire il concetto di casa, di collettività, di città? Non si possono applicare degli schemi prestabiliti a qualcosa che si autodetermina a partire da un sentire comune, quel che esiste davvero sono le persone e gli spazi in cui queste si ritrovano. Solo allora si può cercare di darvi una forma, che prescinda però da ciò che lo circonda.
In tal senso Bologna, nella sua lunga esperienza di ‘laboratorio sociale’, ha dato vita nel corso dei decenni a diverse esperienze di socialità diffusa, spesso a partire dal contesto universitario, ma più semplicemente derivante da una grossa componente giovanile che ha sempre attraversato la città. Il Làbas è uno degli esperimenti meglio riusciti degli ultimi anni, «uno spazio fondamentale della controcultura bolognese», secondo una definizione del fumettista Zerocalcare.
«Il Làbas nasce all’interno di un contesto europeo e italiano molto particolare – racconta Alessandro, uno dei fondatori – dopo la crisi del 2009, in un momento di ristagno per i movimenti studenteschi. Era il novembre del 2012 e le parole d’ordine erano fiscal compact, spending review, austerity, governi tecnici, tagli e svendita dei beni comuni, ex caserme comprese. La nostra intenzione era rompere i meccanismi e interagire con le nuove generazioni con modalità differenti rispetto alle realtà già esistenti. Per questo abbiamo scelto l’ex caserma Masini di via Orfeo (quella che durante gli anni del fascismo era uno scannatoio per i dissidenti politici: circa settant’anni prima erano stati sequestrati dalle camicie nere Giuseppe Bentivogli e Sante Vincenzi, torturati e ammazzati nella notte del 20 aprile 1945, all’alba della liberazione di Bologna), nel quartiere Santo Stefano, come luogo dove creare un nuovo spazio di socialità».
Dopo un mese e mezzo, però, la caserma passa dal Demanio a Cassa Depositi e Prestiti, un fondo d’investimento a metà tra pubblico e privato, e il collettivo del Làbas, una ventina di ragazzi e ragazze di provenienze ed esperienze diverse, si aspettano di essere sgomberati da un giorno all’altro. Inizia da qui la loro ‘resistenza’, che passa dalla ristrutturazione degli spazi interni e del gigantesco cortile centrale, per poter dar vita ai primi progetti per la comunità.
«È stata tutta una scoperta per noi – continua Alessandro –, non avevamo un manuale d’istruzioni. La svolta c’è stata qualche mese dopo, quando siamo riusciti ad organizzare con l’associazione Campi Aperti i primi mercatini di frutta e verdura, rimuovendo parte della pavimentazione in cemento per poter creare un orto sociale e dar vita ad un mercato contadino. Così abbiamo cominciato ad approcciarci al quartiere, che dava l’idea di essere borghese ma che con nostra grande sorpresa abbiamo scoperto essere tutt’altro che ostile alle nostre iniziative». Tutte iniziative che danno al Làbas un riconoscimento sociale e politico, anche in contrasto con le istituzioni locali.
Nasce così il progetto Accoglienza Degna, per dare uno luogo dove vivere a diverse persone straniere attraverso la ristrutturazione di alcuni spazi interni. Con l’aiuto di molti volontari, si riescono a creare degli spazi confortevoli in cui ospitare i bisognosi e a generare in questo modo una piccola comunità, dove non esistono italiani e stranieri ma soltanto persone che imparano a stare insieme condividendo la propria quotidianità. In questo nuovo spazio abitato da una ventina di persone nascono in seguito una ciclofficina, una birreria artigianale, una pizzeria, una falegnameria e una scuola d’italiano, dove molti imparano un mestiere e possono allo stesso tempo ambientarsi in un nuovo contesto urbano.
L’8 agosto 2017 vi è un momento di cesura: quella mattina arrivano le pattuglie della Polizia per sgomberare Làbas. Un rischio calcolato per i ragazzi del centro sociale, che si oppongono con tutte le loro forze (anche fisiche) ma non riescono ad evitare un epilogo scontato. Ma ciò che accade nei giorni successivi è sorprendente: i cittadini al fianco degli attivisti si oppongono alla chiusura, e la notizia fa il giro del Paese arrivando all’opinione pubblica grazie agli interventi su giornali e televisioni. A settembre scendono in piazza 15 mila persone per chiedere la riapertura del Làbas. Si impone quindi la necessità di aprire un dibattito politico con l’amministrazione comunale, costretta a trattare per un nuovo spazio, concesso qualche mese dopo attraverso un bando di avviso pubblico. In quel momento il Làbas si costituisce come associazione (N.P.S., acronimo di Nata Per Sciogliersi, con accezione un po’ polemica) e vince il bando riaprendo in vicolo Bolognetti, in uno spazio attiguo ad alcuni uffici comunali, sempre nel quartiere Santo Stefano.
Nel nuovo Làbas, che mantiene tutte le attività preesistenti e ne crea altre come una sala prove gratuita (in cui si forma La Zecca, un’etichetta discografica indipendente che di recente ha prodotto il suo primo progetto musicale), si costituiscono il doposcuola per i bambini del quartiere e diversi altri servizi alla comunità, in particolare per i migranti: lo sportello lavoro, quello legale e uno per la casa, con l’obiettivo di integrare e orientare chi arriva in città. Viene poi aperto anche lo sportello Riders Legal Infopoint, che offre supporto ad una categoria di lavoratori bistrattata dallo Stato. Infine, vede la luce un altro importante progetto: il Laboratorio di Salute Popolare, per quanti necessitano di cure mediche ma hanno difficoltà ad accedere ai servizi sanitari statali. Esso ne genera un altro a partire dal dicembre 2020: le Staffette Solidali, che merita però un discorso a parte.
Tutte queste attività sono una prova tangibile di quanto il Làbas sia un esperimento sociale di successo, che abbraccia la città stando dalla parte dei più deboli, spesso degli invisibili. Un ‘municipio sociale’ che mira all’emancipazione e autodeterminazione delle persone.
Giuseppe Mugnano
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Foto copertina: labasbo.org