La squadra più bella del mondo compie 111 anni: tanti auguri Bologna!

Il racconto ‘Rossoblù’ del tifoso Stefano Gamberini vince il concorso letterario ‘Città di Bondeno’

Tempo di Lettura: 7 minuti

Stefano Gamberini è nato a Ferrara ma è da sempre tifoso del Bologna, e domenica scorsa il suo racconto dal titolo Rossoblù ha vinto il primo premio al concorso letterario ‘Città di Bondeno’.
Rossoblù è la storia autobiografica della passione per il Bologna trasmessa a Stefano dal papà, passione che a sua volta Stefano ha trasmesso al figlio.
Oggi pomeriggio il Bologna FC 1909, sul proprio sito ufficiale, ha pubblicato questo splendido racconto, pieno d’amore per i nostri colori. Buona lettura…

Rossoblù

“Papà, ma perché andiamo fino a Bologna per vedere la partita?”. Mi guardò con tenerezza, che non era sua abitudine, ma piuttosto riservata alle cose più importanti.
“Non andiamo a vedere la partita. Noi andiamo a vedere Il Bologna”. La chiudemmo lì, e la mia mente bambina la registrò alla voce ‘cose che non capisco’.
Ma l’avrei capita in seguito.
Era la prima volta che mi portava con lui allo stadio. Ricordo che lo vedevo prepararsi, la domenica, mangiare qualcosa di corsa, spesso in piedi, baciare mia madre e dirle: “Torno presto”.
Lo seguivo fino alla macchina e gli chiedevo: “Perché non posso venire anch’io?”.
“Presto ti porto”, mi rispondeva, e l’impressione era quella di un rimando studiato, non di una risposta frettolosa. A quando fossi stato pronto per comprendere, per apprezzare, per innamorarmi. Quella domenica tornammo da Messa e sentì i miei genitori parlottare in cucina. Poi mia madre mi prese da parte e mi disse che papà mi avrebbe portato con lui.
Per me andare con lui era sempre una festa. Il tempo, in massima parte, lo passavo con mamma, casalinga. Mio padre lavorava tutto il giorno e tutti i giorni. Il tempo con lui era poco, quindi prezioso.

Se faccio il punto oggi, che sono uomo da un bel po’, dei momenti davvero felici della mia vita, ecco, quelli lo sono stati di sicuro.

La 124 puntava decisa verso Bologna e io tempestavo mio padre di domande. “Chi è l’allenatore del Bologna, e i giocatori? Chi è il più forte? Lo stadio è più grande di quello di Bondeno? Perché il nostro avversario si chiama Lanerossi Vicenza, cosa c’entra la lana?”. Lui sorrideva e centellinava le risposte per non rovinarmi la sorpresa. Lo stupore e l’entusiasmo che sboccia in un cuore bambino sono le perle che un genitore cerca per tutta la vita e per quelle lavora.

Lasciammo la macchina lungo i viali, accodata a mille altre. Tante così, tutte insieme, non le avevo viste mai. Camminavamo inghiottiti da un fiume di gente, tra bandiere e maglie rossoblù che sbucavano da ogni parte. E grida e voci a rincorrersi e cercarsi tra la folla. Qualcuno seguiva la strada, ma i più, e noi con loro, infilavano un cancello enorme che portava verso quello che a me sembrava un cimitero.
“Papà, ma stiamo andando al cimitero?”.
“Questa è la Certosa; se passiamo da qui si fa prima”.
Io rimasi interdetto. La Certosa era un luogo immenso; le tombe appiccicate in corridoi scuri e interminabili. Milioni di visi mi fissavano dal marmo che li aveva intrappolati per l’eternità. E statue bellissime, angeli ad ali spiegate, croci di ogni forma e dimensione. Un conto è sapere che tutti siamo destinati a morire, prima o poi. Un altro è averne la riprova. Ma il disagio derivava anche dal fatto che le grida e i cori continuavano pure lì e mi sembrava mancanza di rispetto, visto che quando andavamo a trovare i nonni al cimitero a me e mio fratello era imposta la compostezza e il silenzio. Lo feci presente a mio padre. Lui si fermò, con un sorriso bellissimo sotto i suoi baffoni neri. “Hai ragione, al cimitero si deve fare silenzio; ma qui, la domenica che gioca il Bologna, si può fare un’eccezione. Io credo che a tutte queste persone faccia piacere, una volta ogni due settimane, sapere della squadra, di come sta andando il campionato, di come stanno Bulgarelli e Pascutti. È un bel modo di tenerli informati. Di silenzio, tutti gli altri giorni, qui ce n’è in abbondanza”.

Uscimmo e cominciammo a camminare sotto il portico che saliva allo stadio; storditi dal profumo dei fiori destinati ai defunti che i negozietti, uno di fianco all’altro, esponevano e quasi impedivano il passaggio. Per me, da allora, il nostro stadio ha quel profumo. E anche per questo è unico e diverso da tutti gli altri.
Fece il biglietto, comprò due cuscini, li chiamò proprio così, ma erano semplicemente due pezzi di polistirolo da mettersi sotto (per non ghiacciarsi il culo).
Mi prese forte la mano, per evitare che tra tutta quella umanità potessi perdermi. Mi trascinò lungo un’immensa scalinata. Non avevo mai visto niente di simile, niente di così grande. I cori, le bandiere, le sciarpe e i cappellini coi colori della squadra, la gente che non smetteva di entrare e sembrava quando si rovescia un liquido per terra. In un momento ricopre tutto e non rimane più un angolo asciutto. Papà mi tirava perché dovevamo trovare in fretta il nostro posto; di lì a poco sarebbero entrati i giocatori e non voleva che mi perdessi proprio quel momento. Il momento che, per la prima volta, avrei visto le maglie rossoblù addosso ai nostri giocatori dal vero e non sulle figurine Panini. E mi sarei irrimediabilmente ed inguaribilmente innamorato.

Era un febbraio avanzato, ancora freddo ma di luce limpida. Veramente eravamo partiti da Bondeno con la nebbia perché in quegli anni, da ottobre a marzo, era sempre di quella. Ma appena fuori Cento era sparita improvvisamente. Perché il sole, come diceva papà, faceva il timido solo dalle nostre parti; invece, a Bologna, dava il meglio di sé. Avevo capito da tempo che alla sua terra d’origine lo legava un amore sviscerato, che non concedeva spazio a confronti.

Quell’improvviso scomparire del grigiore e l’esplosione di luce appena varcato il confine provinciale, mi instillò il dubbio che potesse davvero essere così, al di là delle ragioni del cuore.
Mi guardai attorno, finalmente seduti. Mai avrei immaginato che potesse esistere un prato tanto liscio e verde brillante; neanche il panno del biliardo della Clara, al Bar Sport, poteva competere.
Strisciavo lo sguardo dal campo alla tribuna alla curva Andrea Costa dove i tamburi e le voci gracchianti dentro ai megafoni, crescevano di intensità. Incantato risalivo quel po’ di portico che si poteva vedere e portava su, al santuario della Madonna di San Luca, acciambellato sul Colle della Guardia. E pensavo che, con una protezione come quella, nulla avrebbe potuto accadere, di brutto, ai nostri campioni.
Papà mi indicò i 42 metri della Torre di Maratona, che giganteggiava alle nostre spalle. “Ricordati sempre che in questa meraviglia c’entriamo anche noi. Tuo nonno, quando doveva essere costruito, versò due lire al municipio allo scopo. Una pietra, qui, è nostra”.
“Papà, ma tu quando hai cominciato a venire allo stadio?”.
“Ero poco più grande di te adesso. Quando la mia mamma morì, mi affidarono a una zia, a Bologna. Tutti i giorni mi dava una monetina, per la merenda. Dopo un po’ cominciai a metterla da parte e la domenica, con quei risparmi, venivo alla partita”. “E la merenda?”. Non vedeva l’ora di raccontarmela. “Davanti alla scuola un cieco e un’altra persona vendevano panini e si facevano concorrenza. Un giorno andai dal signore cieco e gli dissi: “Se io ti porto tutte le mattine dieci bambini a prendere il panino, tu a me lo dai gratis? Così facemmo l’accordo”.
“Furbo, eh?”. Allungò una carezza. “Soldi non ce n’erano proprio, allora; bisognava arrangiarsi. E per le cose importanti bisogna darsi da fare: ieri come oggi. Il Bologna per me era davvero troppo importante, mi faceva passare domeniche bellissime”.

La la la la la la la… Acqua Cerelia… Il jingle pubblicitario, che poi scoprì essere legato ai nostri colori da una vita, una sorta di inno ante litteram, richiamò la mia attenzione e abbassò il vociare sui gradoni del Comunale.
Era il segnale.
Le squadre entrarono e lo speaker iniziò a scandire notizie sulla partita, sull’arbitro, sulle formazioni; ma di dieci parole se ne capivano quattro. L’effetto, comunque, era fantastico; quelle parole che inciampavano e si smarrivano sembravano studiate a tavolino.

All’ultimo nome scoppiò l’applauso di tutto lo stadio e mi ritrovai a fare festa con altri ventimila sconosciuti. Che sconosciuti non erano più, accomunati dal Bologna nel cuore. Un attimo dopo, mentre i giocatori corricchiavano in ordine sparso sotto di noi e mio padre me li indicava uno ad uno: Pavinato, Guarneri, Roversi, Janich, Fogli, Haller, Bulgarelli, Perani, Furlanis, Tumburus… Intorno a noi iniziarono i commenti sulle scelte dell’allenatore. Chi era convinto e chi no. Chi diceva che Viani non capiva niente e chi chiedeva di lasciargli tempo. Chi minacciava di lasciare lo stadio “perché con quelli lì, oggi, si prende la paga”, e chi lo invitava a farlo davvero, maledetto menagramo.

Era una commedia divertentissima, in italiano misto a dialetto, che intuivo a malapena; ma quei visi già arrossati, certe espressioni colorite, quell’infervorarsi ancora prima che l’arbitro fischiasse l’inizio, mi facevano ridere da matti.

Ed ecco: si comincia.

Mi destabilizza il non avere in sottofondo la voce di Nicolò Carosio che spiega chi passa a chi, e più in generale quello che succede in campo. Così chiedo a mio padre ogni cosa. E lui, ma anche i vicini di posto che ormai mi hanno adottato, fanno a gara per spiegarmi tutto.
Il rumore sordo e pieno del pallone quando viene colpito, i giocatori che si gridano indicazioni concitate in campo, il fischio dell’arbitro che spalanca l’aria e arriva fortissimo fino a metà gradinata, dove stiamo noi…
Ma sono nulla rispetto al boato che fa tremare lo stadio e ci fa schizzare in piedi quando Ferrario decide che adesso basta scherzare. E quando Pascutti gli dà ragione e decide che è ora di chiudere la pratica.
Usciamo qualche minuto prima della fine per evitare la bolgia e mi dispiace, perché non vorrei lasciare indietro neanche le briciole; ma se mio padre dice che è meglio così, mi fido. Lui non sbaglia mai. Aveva predetto anche questo 2-0 e certamente aveva scelto per me una partita come questa, non impossibile. Perché la tua squadra la ami anche quando perde di brutto. Ma se la prima volta che la vedi, vince, è quasi sicuro che tu, poi, non possa farne più a meno.

Una volta in strada mi indica una chiesa: “Io e mamma ci siamo sposati là”.
“Poi dove siete andati in viaggio di nozze?”.
“A Firenze. Pensa che caso: quel giorno il Bologna giocava proprio là”. Mi carica in spalla e cominciamo a ridere a crepapelle.
“Ma lei non si è arrabbiata neanche un po’?”. La sua voce mi arriva, convinta, da sotto.
“Tua madre, per prima cosa, è una santa. Poi deve aver pensato che un uomo così attaccato alla sua squadra, a maggior ragione lo sarebbe stato alla sua donna”.

Quante domeniche abbiamo rivissuto quelle emozioni, sempre uguali: pranzo in fretta, passaggio in Certosa, fila per i biglietti, polistirolo sotto il culo, Gorghetto (l’indegno caffè in bottiglietta, ma almeno caldo)…
Mio padre un po’ invecchiava e io un po’ crescevo: ma l’emozione era quella. Generata dal fatto che eravamo insieme, e ci riconoscevamo fatti della stessa pasta. Anche se poi, magari, capitava di non ricordarselo, fuori da quella bolla domenicale.
Si tornava a casa parlando poco per ascoltare Ameri, Ciotti e tutti gli altri alla radio che raccontavano le partite e noi facevamo congetture su classifica e prossime di campionato. A San Giovanni in Persiceto, se avevamo vinto, ci si fermava per un gelato, io, e un latte macchiato, lui. Se era andata male si tirava dritto, che la sconfitta ci aveva chiuso lo stomaco.

Ad un certo punto sono diventato padre anch’io e per un po’ di anni le occasioni per lo stadio si sono fatte rare. Finché un giorno mio padre mi fa: “Senti un po’, ma quando pensi che cominciamo a portarlo al Bologna? Vorrai mica che diventi spallino o peggio ancora juventino, vero? Lo sai che in casa nostra anche il gatto è rossoblù!”.

Qualche domenica dopo camminiamo tutti e tre sotto il portico; gli teniamo le manine, uno da una parte ed uno dall’altra. Respiriamo il profumo dei fiori e rispondiamo alle sue domande. Ma con studiata parsimonia; perché i regali vanno scartati lentamente. Per godere fino in fondo della festa.

Stefano Gamberini

Fonte e foto: bolognafc.it