Non sarà calcio ma è pur sempre calcio. Beata la Germania…
Sanificazione minuziosa, dai seggiolini ai palloni. Sul campo, oltre a titolari, sostituti e arbitri, dieci membri dello staff per squadra, quattro raccattapalle, quattro medici, quattro uomini della sicurezza, tre addetti all’igiene, tre fotografi e quindici tra cameraman, tecnici video e responsabili della raccolta dati. In tribuna solo una trentina di giornalisti. E poi mascherine, borracce personalizzate e distanze di sicurezza da rispettare, quantomeno ai margini del rettangolo verde. Un mezzo paradosso, certo, se si pensa ai contrasti e soprattutto alle mischie in occasione dei corner, ma le regole sono chiare: evitare i contatti superflui, come le strette di mano e gli abbracci dopo un gol. Il resto è sport di squadra, è rischio che va messo in conto.
Oggi pomeriggio la Germania ha mostrato al mondo che, anche nell’era del COVID-19, giocare a calcio ad alti livelli si può. Del resto nei Paesi seri, dove la sanità non viene ridotta in coriandoli a forza di tagli, dove la burocrazia non è un freno perenne, dove non si passa il tempo a litigare e dove i soldi per aiutare i cittadini ci sono, funziona così. Da altre parti, invece, «bisogna avere qualche garanzia in più, che al momento non c’è». E chissà se ci sarà mai, si tratti di pallone o di bonus da 600 euro. Non è questione di essere esterofili, bensì di amare troppo l’Italia e di non riuscire più a vederla ridotta in questo stato (con la ‘s’ rigorosamente minuscola).
Comunque, in termini di atmosfera, è indubbio che lo spettacolo a cui abbiamo assistito nel pomeriggio fosse più simile alla Terza Categoria che ad un campionato top come la Bundesliga. In estrema sintesi: senza tifosi non è la stessa cosa. Eppure… Eppure la zampata del solito Haaland del Borussia Dortmund (quanto è forte, il ragazzone norvegese), lo slalom di Cunha dell’Hertha Berlino e l’incornata di Steffen del Wolfsburg, solo per citare le tre reti più belle, ci hanno ricordato che il calcio è sempre il calcio, anche se praticato all’interno di uno scenario ben diverso da quello abituale. C’entrano i soldi, inutile negarlo, ma c’entra pure la voglia di tornare un passo per volta alla normalità. Quella normalità che per svariati milioni di persone sparse sul globo, almeno nel weekend, dura novanta minuti.
Simone Minghinelli
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