Ogni volta che ci si ritrova a sfogliare l’album dei ricordi del Bologna Football Club 1909, immancabilmente compare il nome del giornalista e storico Carlo Felice Chiesa, che in oltre quarant’anni di onorata carriera ha raccontato centinaia se non migliaia di vicende e aneddoti del calcio rossoblù, basandosi sempre su fonti granitiche e testimonianze inedite. Per questo, a buon diritto, si può affermare che Chiesa sia la principale memoria storica della società felsinea. Oggi che la squadra, sotto la guida di Thiago Motta, è tornata a scrivere pagine memorabili, l’abbiamo intervistato per riavvolgere il nastro, celebrare il presente ma anche guardare insieme al prossimo futuro.
Dr. Chiesa, lei è ritenuto da molti il maggior conoscitore della storia del Bologna, e non a caso la società ha più volte chiesto la sua collaborazione, come per i libri sullo scudetto del 1925 o su quello mai assegnato del 1927: quale opera le ha dato le maggiori soddisfazioni, in termine di ricerca storica, e a quale è maggiormente affezionato? «Sarà perché ho fatto in tempo a viverla, seppur da bambino, una delle storie più singolari rimane quella dello scudetto 1963/64, appesantita dal caso doping. Così sono particolarmente legato sia alla storia fotografica, con le fantastiche immagini di Walter Breveglieri proposte in Così si gioca in Paradiso!, sia al romanzo storico che ne trassi, Lo scudetto insanguinato, in cui ricostruivo come potrebbe essere andata l’intera vicenda. Sono entrambi editi da Minerva, la casa editrice di Roberto Mugavero che ha ormai assunto un ruolo di primo piano nella nostra città».
Da dove nasce la sua passione per la storia del calcio? «Mi ha sempre appassionato la storia, anche perché dai comportamenti umani del passato è possibile trarre lezioni sempreverdi sul presente e sul possibile futuro. Non potevo quindi non amare quella del calcio, il settore in cui esercito la gran parte della mia attività giornalistica ormai dal lontano 1981. In particolare, quando nel 1997 fondammo il nuovo mensile Calcio 2000, l’impareggiabile direttore Marino Bartoletti volle nella rivista una robusta componente storica: mi ci ritrovai particolarmente a mio agio, continuando anche sul piano professionale a svolgere ricerche e approfondimenti».
C’è un personaggio della storia rossoblù su cui ancora non è stata fatta abbastanza luce? «Diciamo che, escludendo i giocatori, tra le figure meno pubblicizzate risalta quella di Alessandro Oppi, il vero e proprio inventore della figura del segretario organizzativo di un club di calcio. Nel 1913, agli albori della storia rossoblù, il presidente Rodolfo Minelli, promotore della realizzazione dell’allora avveniristico stadio dello Sterlino, gli chiese di lasciare il suo impiego per diventare segretario generale, ‘inventandosi’ praticamente di sana pianta tutto ciò che oggi diamo per scontato in una società calcistica: dai rapporti con la stampa alla logistica degli allenamenti, dal servizio di biglietteria ai viaggi delle trasferte. Renato Dall’Ara gli avrebbe poi riconosciuto, per la sua bravura e puntualità, un ruolo determinante addirittura nei successi del Bologna anni Trenta. Tra l’altro fu grande amico di Arpad Weisz, di cui era vicino di casa in via Valeriani. Ho conosciuto il figlio ai tempi del centenario del Bologna: ancora lucidissimo, i suoi racconti mi aprirono squarci straordinari sulla storia del club nei primi decenni».
Chi invece considera il personaggio più emblematico nella storia del BFC? «Difficile rispondere, ce ne sono più di uno. Dovessi sceglierne tre direi innanzitutto ‘Angiolino’ Schiavio, il più grande cannoniere della storia rossoblù e il quarto in assoluto in quella del massimo campionato italiano dietro a Piola, Meazza e Totti: un dato che viene costantemente ignorato da chi limita le statistiche al ‘post nascita del girone unico’ (cioè dal 1929/30), come se nel contare gli scudetti venissero ignorati tutti i titoli vinti dalla Pro Vercelli, giusto per fare un esempio. Schiavio rifiutò sempre, anche quando nel 1926 venne introdotto il professionismo, di ricevere emolumenti per la sua attività agonistica: un esempio di puro amore per il gioco e i colori rossoblù, dei quali fu sempre appassionato, tanto da declinare una faraonica offerta dell’Inter dell’amico Meazza».
E poi? «Senza dubbio Renato Dall’Ara, dal cui genio sortirono cinque scudetti, una Coppa dell’Europa Centrale, antesignana dell’attuale Champions League, e il trionfo nel Torneo dell’Esposizione di Parigi nel 1937, una sorta di piccolo campionato del mondo per club. Senza contare il fatto che per il Bologna, diventato la passione della sua vita, finì col morire, all’indomani proprio del caso doping e quattro giorni prima di vedere i suoi ragazzi conquistare lo scudetto nello spareggio di Roma con l’Inter di Herrera fresca campione d’Europa. Infine Giacomo Bulgarelli, bandiera del BFC del Dopoguerra, ragazzo cresciuto nel vivaio, tra i più grandi della storia del nostro calcio, un centrocampista completo anche lui refrattario a lasciare la città e il club a cui si era legato per sempre. Un vero figlio di Bologna, anche per la cultura e il disincanto che ne connotarono sempre le parole e l’agire».
Ci racconti, a suo parere, uno degli aneddoti più appassionanti legati al Bologna. «Ne vissi parecchi in prima persona nel 2009, nei mesi in cui preparavo i volumi del Centenario: ne scelgo uno. Quando ci fu da stendere il progetto della mostra dei cento anni, mi fu chiesto quale avrebbe potuto essere la ‘stella’ della rassegna e io risposi allargando le braccia: certamente il trofeo del Torneo dell’Expo di Parigi 1937, un unicum assoluto per vari motivi, dallo spirito della manifestazione (sostenere le istanze di pace in un momento in cui l’Europa era attraversata dai venti gelidi della guerra che di lì a due anni sarebbe sanguinosamente scoppiata) alla partecipazione dei ‘maestri’ inglesi, sempre rifiutatisi all’epoca di scendere a confronto con gli ‘allievi’ che praticavano il football. Perché quel gesto rassegnato? Perché del misterioso trofeo, dalla foggia così particolare, avevamo un’unica traccia: la foto sulla copertina del Calcio Illustrato in cui capitan Schiavio lo teneva tra le mani in mezzo ai compagni festanti. Di quella strana coppa (difficile anche capire di quale materiale fosse fatta, se di metallo o d’altro) si era persa ogni traccia. Mai vista in altre immagini, neppure in quelle d’epoca della sala trofei di vecchie sedi del club. Impossibile trovarla. “Trovala”, mi chiese allora Dario De Cesaris, il comandante in capo per la proprietà Menarini dell’operazione Centenario. Un’impresa praticamente impossibile, tanto che pensammo di riprodurne nella mostra un ologramma in tre dimensioni, sempre che l’art director fosse stato così abile da trarne i caratteri da quell’unica immagine».
Situazione complicata, per usare un eufemismo… «Passano alcune settimane e un giorno, raccogliendo dati per la storia del club che stavo scrivendo per il relativo volume, mi imbatto in un racconto di Ercole Schiavio, che alcuni anni prima aveva riassunto alcuni momenti topici della vita del suo grande papà. In uno dei brevi capitoli raccontava come nel 1937 Angelo avesse ormai abbandonato l’agonismo, ma proprio in vista del prestigioso torneo parigino, a cui il Bologna era stato invitato come campione italiano in carica, il presidente Dall’Ara lo avesse convinto a tornare in campo nelle due ultime gare di campionato. Nella prima, contro il Novara, ‘Angiolino’ aveva scaldato i ferri; nella seconda, in casa col Milan, aveva segnato entrambi i gol della vittoria per 2-0, convincendosi di potercela fare. Così era partito per Parigi e lì il BFC aveva trionfato anche grazie a lui, formidabile condottiero avanzato. “Vinta la coppa – scriveva Ercole –, Dall’Ara prese da parte il campione e gli disse: questa, Schiavio, se la prenda lei e se la porti a casa”. Poteva essere un semplice, giustificatissimo attestato di stima, eppure mi si accese in testa una lampadina: vuoi vedere che… Così telefono a Carlo Caliceti, responsabile dell’ufficio stampa del Bologna, e gli butto là la cosa: “Guarda, è di certo un’idea sciocca, ma te la giro lo stesso: non è che la coppa dell’Esposizione non si è mai trovata soltanto perché Dall’Ara l’aveva regalata a Schiavio e nessuno ha mai pensato di chiedergliela?”. “In effetti – fu la risposta di Carlo – sarebbe piuttosto strano, però mai dire mai: provo ad attivarmi. Obiettivamente non era facile, perché Ercole Schiavio si era da anni trasferito in Canada dopo la cessione dell’antica ditta di famiglia in via de’ Toschi».
Eppure… «Passano un paio d’ore, sono a cena con mia moglie e mi telefona Caliceti: “Sei seduto? Tieniti forte: hai centrato il bersaglio. Abbiamo trovato la coppa!”. Aveva chiamato Ercole oltreoceano, questi gli aveva detto di averlo sempre visto in casa o in ufficio da papà, quel trofeo, che adesso doveva essere in possesso di una delle due sorelle. La prima telefonata era stata a Marcella, che aveva tranquillamente confermato che la grande coppa, tutta in vetro, era da molto tempo uno dei ricordi di suo padre Angelo custoditi con tanto amore nella propria abitazione. Pochi giorni dopo, assieme a Carlo, al mitico Lamberto Bertozzi, statistico ufficiale del centenario e collezionista incallito, al fotografo e all’operatore, eccoci a casa della signora ad ammirare il trofeo incredibilmente ritrovato, che poi tutti avrebbero potuto vedere alla mostra e che oggi riposa nel caveau di una banca».
Crede che il calcio di oggi si presti ancora a racconti da epopea? «Perché no? Sento spesso lamentazioni sul bel tempo perduto, sul calcio d’antan che aveva profumo di romanticismo e oggi non esiste più. Qualcosa di vero c’è, basti pensare all’italianità di quel gioco, in cui gli stranieri erano in numero limitato, mentre oggi sono la maggioranza, tanto da mettere a repentaglio la stessa possibilità di costruire una Nazionale decente. Così com’è sacrosanto sottolineare che l’elemento economico ha preso drammaticamente il sopravvento: penso soprattutto a UEFA e FIFA che moltiplicano gli impegni agonistici pur di aumentare gli incassi, incuranti del logorio cui vengono sottoposti i protagonisti. Però il calcio continua a esercitare un fascino straordinario e proprio i ‘pienoni’ del Dall’Ara di quest’anno lo dimostrano».
Finalmente, dopo alcuni anni grigi, il BFC sta tornando a far sognare i suoi tifosi: un giorno questa splendida stagione sarà meritevole di essere raccontata? «Certamente. Basti pensare ai tanti ingredienti dell’attuale cavalcata del Bologna, che nessuno l’estate scorsa avrebbe pronosticato come squadra rivelazione del campionato: dal coinvolgimento – passionale e, come sempre, finanziario – del proprietario Joey Saputo alle scelte di mercato di Giovanni Sartori, fino allo straordinario lavoro di Thiago Motta e alle prestazioni dei ragazzi, protagonisti di partite dal grande impatto sul piano dello spettacolo. Tutto ciò in futuro potrà dar vita ad un racconto ricco di suggestioni».
Nel frattempo cosa c’è sulla scrivania di Carlo Chiesa? «Attualmente mi sta impegnando molto la serie a puntate sui campioni della storia del calcio universale, dalle origini a oggi, che da qualche anno sto realizzando sul Guerin Sportivo. Calcio e storia, non posso proprio farne a meno…».
Giuseppe Mugnano
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