La storia di Emilio De Leo è di quelle che non lasciano indifferenti ed esaltano l’innata capacità di guardare lontano, fino a realizzare i propri sogni: partito dalla Terza Categoria campana, sulla panchina dell’Aquilotto Cavese, l’allenatore classe 1978 ha avuto il merito di costruirsi un passo per volta una carriera di tutto rispetto, condividendo con Mihajlovic, nelle vesti di tattico, le esperienze di quest’ultimo alla guida di Sampdoria, Milan, Torino e Bologna, oltre che della Nazionale serba. Finito da un giorno all’altro sotto i riflettori, dovendo fare a più riprese le veci di Sinisa sia dentro lo spogliatoio che davanti alle telecamere durante la battaglia del mister contro la leucemia, da qualche settimana De Leo si è tuffato a capofitto nel corso UEFA Pro di Coverciano, per crescere ancora e intanto superare il dispiacere generato dalla fine dell’esperienza in rossoblù, chiusa ufficialmente il 6 settembre. Oggi abbiamo avuto l’occasione di intervistarlo e ne è uscita una piacevole chiacchierata di calcio e di vita, a riprova di avere a che fare con un grande professionista e soprattutto una bella persona.
Mister, è un piacere ritrovarla: come vanno le cose? Avendo iniziato il corso UEFA Pro a Coverciano, cosa ci dobbiamo aspettare nel prossimo futuro? «Questo corso fa parte dell’iter di perfezionamento di un allenatore e comprende tre livelli, il primo l’avevo portato a termine nel 2003. Da due-tre anni stavo provando ad accedere a quello UEFA Pro e stavolta, a livello di tempistiche, l’inizio del corso è coinciso con la fine del rapporto col Bologna, così mio malgrado ho colto l’occasione».
A livello umano cos’ha rappresentato Bologna per lei? «È stata un’esperienza completa e incredibile, mi sono trovato benissimo in questo lungo periodo di vita: considero Bologna la città più meridionale fra quelle settentrionali in cui ho lavorato, grazie al calore e alla stima che si è venuta a creare con tifosi, amici e persone che ho conosciuto, oltre che col settore tecnico. Inoltre, per la prima volta, la mia compagna mi ha raggiunto sul luogo di lavoro e così abbiamo condiviso gran parte della mia avventura bolognese: la sua presenza mi è stata di grande aiuto, specialmente per far fronte allo stress accumulato quotidianamente».
E sul piano professionale, invece? «Ho sempre cercato di dare il mio contributo, rispettando in primo luogo l’allenatore, le difficoltà che ha vissuto e dovuto affrontare a più riprese, qualcosa che mi ha responsabilizzato nei confronti suoi, della piazza e della società. Per me è un orgoglio e un’emozione incredibile pensare al blasone tecnico, culturale e sociale di Bologna: quando sono riuscito a rappresentare bene tutto ciò, ne sono andato orgoglioso».
A suo avviso cosa non ha funzionato in questo inizio di stagione, fino all’esonero di Mihajlovic? «In tutta sincerità sono convinto che saremmo riusciti a venirne a capo anche quest’anno, come successo in altre circostanze: abbiamo dovuto riavviare l’ingranaggio, ricreare entusiasmo in un periodo particolare, senza la presenza del mister e dentro una fase di riorganizzazione, col campionato cominciato a mercato aperto. Siamo certi di aver dato il massimo in tutto il nostro ciclo di lavoro, portando avanti con serietà il gruppo e, nella sostanza, raggiungendo quasi sempre gli obiettivi a livello tecnico: il patrimonio rappresentato dai calciatori non è stato depauperato, anzi, in tante circostanze siamo riusciti ad accrescerlo. Da un’esperienza del genere si esce con l’orgoglio e la tranquillità di aver fornito sempre il 100%. Oltre ad aver trasmesso, credo, dei bei messaggi».
Dopo due anni e mezzo di calcio pro-attivo e coraggioso, la scelta di passare ad un calcio re-attivo e attendista: per quale ragione? Avreste voluto compiere il percorso inverso? «Una squadra si riconosce nelle caratteristiche del proprio allenatore, dunque bisogna cercare sempre di essere coerenti sotto questo punto di vista. Esiste però anche la valutazione fatta da un mister intelligente e capace di mettersi in discussione ogni giorno, pensando che in determinati momenti di difficoltà la squadra debba ritrovarsi e ricompattarsi per poi esprimersi al massimo. Tale valutazione è stata compiuta con estrema umiltà e non la disconosco: bisogna confrontarsi coi vari momenti, mostrando una certa capacità di fare autocritica e valutare i giocatori a disposizione con le loro caratteristiche. Sinisa ha sempre creduto in ciò che ha portato avanti, con coerenza e determinazione anche quando si è trovato appunto a mettere in discussione determinate idee e principi di gioco».
Abituato a lavorare dietro le quinte, all’improvviso lei si è ritrovato davanti alle telecamere e a dover gestire anche il rapporto coi media: è stato più un onore o un onere? «Inizialmente è stato più un onere, poi fortunatamente ha preso forma l’onore. Era un qualcosa di nuovo e una responsabilità che ha aumentato il carico di stress, ma sono riuscito a gestirla ragionando da una parte con l’obiettivo di rispettare e aiutare l’allenatore, che doveva affrontare un difficile cammino, e dall’altra considerandola una bella palestra da un punto di vista tecnico, professionale e anche umano. La cosa più complicata è stata quella di fare l’equilibrista, rispettando ruoli e interlocutori, però pian piano ho trovato la quadra».
Dal 2019 in poi avete lavorato con tanti giovani, alcuni ancora presenti in rosa: quale di questi l’ha impressionata maggiormente? «Io mi affeziono a tante caratteristiche e qualità di ciascun giocatore, dunque fatico a sceglierne uno solo. Tomiyasu, per esempio, è emerso come calciatore moderno, capace di interpretare meglio spazi e tempi di gioco rispetto ad un tipico difensore del nostro campionato, e questa per noi è stata una grande soddisfazione. Lo stesso Hickey è un ragazzo incredibile, in pochissimo tempo ha mostrato una personalità fuori dal comune, e lo stesso posso dire di Theate, che ci ha colpito fin da subito. Ma ripeto, faccio veramente fatica a fare un nome solo, perché abbiamo lavorato con tanti giovani validi e di grande qualità».
Qual è stata la principale difficoltà incontrata in assenza di Mihajlovic? «In un primo momento avvertivo una sorta di debito morale e veniva fuori la voglia di onorarlo, poi è emersa la consapevolezza che l’allenatore comunque c’era e ti coordinava, procedendo magari con meno ‘scossa morale’ per via della distanza ma con identica professionalità. In frangenti e circostanze diverse, la difficoltà sostanziale è stata quella, ovvero cercare un determinato riequilibrio emotivo, più dell’organizzazione del lavoro e degli aspetti prettamente tecnici. Parliamo di un contesto quasi irripetibile, per fortuna: tanto merito va dato a Sinisa, seppur non presente e in condizioni di salute precarie è sempre rimasto sul pezzo, mostrando attaccamento e partecipazione, e non è cosa da tutti».
C’è una partita che ricorda con maggior piacere, che risveglia in lei emozioni speciali? «Sicuramente quella in casa della Roma nel febbraio 2020 ha rappresentato un momento incredibile, un successo ottenuto con una qualità e una personalità notevoli che mi ha lasciato gioia e un’enorme soddisfazione. Mi ricordo anche la vittoria a Napoli e quella nello scontro salvezza contro l’Empoli arrivata dopo uno svantaggio balordo, senza dimenticare il 2-1 in rimonta sull’Inter dello scorso maggio, tra mille difficoltà, e il successo al nostro esordio in rossoblù sempre contro i nerazzurri a San Siro. Ho tantissime emozioni e ricordi positivi che conservo dentro di me».
Una curiosità su Arnautovic: quanto differisce la sua immagine pubblica da quella privata dello spogliatoio, in mezzo ai compagni? «Marko ha una forza e un carisma incredibili: forse dall’esterno non si riesce a percepire, perché magari può sembrare il classico calciatore figlio del suo talento, delle sue virtù e dei suoi vizi, ma all’interno dello spogliatoio rappresenta un elemento di forte aggregazione. È un ragazzo eccezionale che parla tante lingue e che è sempre il primo a mettere a proprio agio i compagni nuovi e quelli più giovani, ben lontano dall’immagine di un ‘capetto’ che fa quadrato solo con giocatori più forti ed esperti: dal punto di vista umano Arnautovic è stato una scoperta incredibile».
Cosa ne pensa della proposta calcistica e delle idee portate in rossoblù da Thiago Motta? «Non mi aspettavo i codici e i principi di gioco che sono emersi di recente. Oggi il Bologna è sicuramente una squadra interessante perché non dà punti di riferimento, con tanti singoli che occupano spazi diversi e in grado di ruotare, con ruoli non più fissi e statici ma funzioni da interpretare. Mi fa piacere che molti ragazzi stiano trovando la loro dimensione anche da calciatori evoluti, un qualcosa che avevamo provato anche noi a suo tempo portando per esempio Tomiyasu e Hickey tra le linee, andando ad occupare le mezze posizioni. Quando osservo un calcio fatto appunto di principi e giocatori evoluti, come si è visto nelle ultime partite della gestione Motta, per me è qualcosa di bello e va dato merito al mister».
Secondo lei quanto manca al BFC per poter dare concretamente l’assalto alla zona europea? «Proprio in questi giorni a Coverciano abbiamo esaminato il rapporto tra gli investimenti e il patrimonio tecnico delle società e le posizioni occupate in classifica: è emerso come possano discostarsi di una-due posizioni al massimo, storicamente le graduatorie sono abbastanza delineate. Altro discorso è la capacità di riuscire, anno dopo anno, a rosicchiare qualcosa a chi sta davanti e cercare pian piano di consolidarsi. La ricetta preconfezionata non esiste, penso che in Italia sia tutto molto graduale: non ci si rende conto di come alcune cose abbiano bisogno di tempo e passi impercettibili, per raggiungere certi obiettivi va considerato e perfezionato ogni minimo dettaglio».
Guardando al domani, tornerebbe a Bologna per viverci stabilmente? «Sono rimasto qui fino alla fine di ottobre e sono sempre stato benissimo, anche la mia compagna è innamorata di Bologna e avrebbe voluto mantenere l’appartamento almeno fino a Natale, non voleva proprio lasciarla. Alla fine abbiamo traslocato, ma questa città per noi era diventata vita e quotidianità: io e lei ci abbiamo messo del nostro e dall’altra parte abbiamo trovato una risposta familiare, una vera e propria seconda casa. Chissà, magari un giorno ci rivedremo…».
Riccardo Rimondi
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