Se proviamo a stilare una classifica dei giocatori più talentuosi passati da Bologna negli ultimi vent’anni, il suo nome è sicuramente tra i primi. Anzi, se guardiamo alla pura classe non sarebbe un delitto collocarlo sul gradino più alto del podio. Che mancino, quello di Alessandro Diamanti… Non solo il genio, però, nel DNA del riccioluto pratese classe 1983, pure la tenacia di chi è abituato a non mollare mai e a conquistarsi tutto col sudore della fronte, e la grinta forgiata prima sui campi di provincia e poi su quelli della Premier League. Con la maglia rossoblù, in poco più di due stagioni, 88 presenze, 22 gol, 24 assist, la consacrazione in Nazionale e un nono posto, nel campionato 2011/12, a cui la squadra di oggi guarda come ad un muro da infrangere. Anche un addio traumatico, certo, ma con motivazioni piuttosto chiare per chi sa in quali ‒ disastrose ‒ condizioni versava all’epoca la società. Adesso l’Australia, Melbourne, il Western United, con l’amore della sua famiglia sempre accanto e quello per il calcio a scorrergli nelle vene. È cambiata ancora la maglia, è cambiato di nuovo il continente, ma il sinistro di ‘Alino’ è rimasto lo stesso.
Buonasera Alino, visto il fuso orario… «Già, siamo lontani, qui ormai è ora di cena. Allora, come vanno le cose?».
Insomma, cerchiamo di rialzare la testa dopo la bastonata di domenica. «L’ho vista, mannaggia…».
Del resto, per crescere, bisogna passare anche attraverso sconfitte così. «Eh lo so bene, anche io in carriera ne ho perse tante (ride, ndr). Però la squadra ha dato tutto quello che aveva. L’unico cosa, devo ancora capire quale sia l’obiettivo finale».
Fare meglio di voi nel 2011-2012, quindi 52 punti. «Di riffa o di raffa siamo ancora tirati in ballo noi, la vecchia guardia di Diamanti & Co. resiste (ride, ndr)».
Forse l’ultimo bel Bologna prima di quello attuale: tu, Di Vaio, Ramirez, Kone, mica poco… «È così, e non sei l’unico che lo dice. C’era parecchia qualità e un gruppo compatto, nonostante fossimo di fatto senza società. Pensa se avessimo avuto pure la società, pensa se ci fosse stato un Saputo che dopo i 51 punti avesse messo dentro tre-quattro rinforzi, avremmo rischiato di fare veramente come l’Atalanta di oggi».
Quello rimane un grosso rimpianto, aver visto passare dei bei giocatori in un periodo disgraziato. «È stato bello lo stesso: certe emozioni non si cancellano, al di là delle situazioni e dei risultati».
Mi pare di capire che ai colori rossoblù sei rimasto davvero affezionato e continui a seguirli. «Certo che sì. In Australia siamo avanti nove ore, che presto con l’ora solare diventeranno dieci, quindi non è semplicissimo: le gare delle 12:30 italiane le vedo sempre, quelle delle 15 solo se il giorno dopo non ho allenamento e quindi posso stare alzato un po’ di più. Le altre provo a registrarle e a restare all’oscuro del risultato, ma adesso tra i social e WhatsApp è dura non venire a sapere il punteggio finale».
Nonostante l’avvio un po’ traballante, il Bologna di Mihajlovic ti piace? «Giocare gioca bene, peccato però che i punti conquistati finora siano meno di quelli meritati. Però so che lo spogliatoio è unito, tutti si allenano al massimo e remano nella stessa direzione, con queste premesse i risultati arriveranno per forza».
Una parte della tifoseria teme invece che si possa restare impantanati in una zona di classifica poco simpatica. «Quando perdi certe partite, senza meritarlo, un po’ d’ansia e di frustrazione è comprensibile, specie per una piazza passionale come Bologna. Ma personalmente, sapendo come lavora l’allenatore e guardando i nomi in rosa e il gioco espresso, non penso proprio che si corrano dei rischi in tal senso».
Dopo sei anni di gestione Saputo, te lo aspettavi un po’ più in alto il BFC? «Faccio un po’ fatica a rispondere… Saputo sta facendo le cose step by step e ci sta, anche se sono dei gradoni più che dei gradini. Scherzi a parte, sicuramente mi aspettavo che i ‘miei’ 51 punti fossero già stati superati, da tifoso mi garberebbe che diventassero la regola. Ma lo dico in primis perché il presidente lo merita, ha già investito tantissimo nel club per provare a fare qualcosa di importante e deve cominciare a raccogliere qualche soddisfazione».
Sei rimasto in contatto con qualcuno a Casteldebole? «Sì, parlo spesso con Marco (Di Vaio, ndr) e ho anche una chat coi magazzinieri e altri collaboratori. Io sono sempre stato l’uomo dei lavoratori dietro le quinte, ovunque sono stato ho stretto amicizia con quelli che si fanno il mazzo senza apparire: è il mio modo di essere, anche se a Bologna il mio modo di essere non l’hanno capito tutti, ma va bene così».
Direi che stiamo per toccare quel preciso argomento, quindi ti lascio andare a ruota libera… «Su Guaraldi e su quella famigerata vicenda non ho mai voluto infierire perché sono una persona vera, ho preferito tacere nonostante le varie cazzate che sono state dette e scritte, sempre con grande cattiveria: te ne potrei elencare una cinquantina, mia moglie se le è scritte tutte. Noi però viviamo felici e rispondiamo col sorriso, non siamo gente rancorosa, se lo stesso Guaraldi e qualche giornalista si aspettavano che gettassi m…a di qua e di là saranno rimasti delusi. Eppure io di cose ne so parecchie, su giocatori, allenatori, presidenti, direttori, procuratori, ci potrei scrivere un libro, ma non me ne frega nulla. Bologna la amo, la sento come la mia città e il pensiero della gente mi interessa, però non mi faccio condizionare, e soprattutto non giudico gli altri. Quando uno ha la coscienza pulita è a posto. Che poi voglio dire, se anche fossi andato in Cina per soldi non avrei mica ammazzato nessuno…».
Sul piano professionale sarebbe stato comprensibile, visto com’era ormai ridotta la società. «Ogni anno venivano venduti otto titolari su undici, e alla fine restavamo sempre io e Stefano Pioli a prenderci sì i meriti ma anche la m…a. A proposito, hanno detto anche che sarei stato io a mandare via il mister, ma io e lui ci sentiamo almeno tre volte al mese da sette anni a questa parte. Io e Pioli eravamo gli ultimi che avremmo mai mollato qualcosa, e direi che l’abbiamo dimostrato ogni volta, almeno finché ci è stata data la possibilità di farlo».
C’è ancora qualcuno che però non lo capisce o non lo vuole capire. «Posso dire in tutta sincerità che sotto le Due Torri non ho mai ricevuto qualcosa che non fossero complimenti o manifestazioni d’affetto, mai. Per me conta la strada, il faccia a faccia, i social network e i leoni da tastiera non li considero nemmeno, non esistono. Il problema è che la mia storia con Bologna si è interrotta nel pieno dell’amore reciproco, come se due innamorati si fossero separati di punto in bianco al culmine del rapporto, e quando c’è tanto amore è normale restarci male. Io sono rimasto solo due anni e mezzo, ma è come se fossero stati dieci per l’intensità delle cose vissute e condivise, era un periodo difficile. Non è che al momento di trasferirmi in Cina facessi i salti di gioia, anzi… Comunque andiamo avanti che è meglio, parlare dell’attualità mi piace molto di più».
E allora torniamo al presente: non pensi che al Bologna di oggi manchi un Diamanti, inteso come estro e genialità? Per non parlare delle punizioni… «C’era Verdi che le tirava benissimo, anche con l’altro piede, mica come me che uso solo il mancino (ride, ndr). Ma al di là delle punizioni e del Bologna, in generale ne sono rimasti pochi di fantasisti con le mie caratteristiche, che amano giocare per far divertire la gente, che trascinano sia la folla che i compagni. Il calcio sta cambiando e purtroppo si sta allontanando sempre di più da quello stereotipo di numero 10, ora prevalgono la velocità e la fisicità. Per fortuna in rossoblù c’è ancora Palacio: faccio spesso questo esempio, se portassi mio figlio allo store del BFC gli farei comprare la maglietta di Rodrigo, io il calcio lo vedo così».
Qui comunque ricordiamo non solo il tuo enorme talento, ma anche la tua grinta e la tua generosità. «In effetti iniziavo sulla trequarti ma poi coprivo ottanta metri di campo, specie in quegli anni lì in cui non mi arrivava quasi mai la palla e allora me l’andavo a prendere nella nostra area. Dovevo fare tutto: portare la croce, dare pedate, rifinire e, se ne avevo ancora, segnare (ride, ndr)».
Vedendoti all’opera, direi che lo smalto sia sempre quello dei bei tempi: hai portato il Western United ad un passo dalla finale per il titolo e hai fatto incetta di premi… «La scorsa è stata un’annata incredibile sia per la squadra che sul piano personale, un’esperienza calcistica e umana fantastica, mi ritengo fortunato perché non potevo fare scelta più azzeccata. Nello specifico ho vinto l’Alex Tobin Award, come miglior giocatore del campionato secondo Fox Sports, la Johnny Warren Medal, che è una sorta di pallone d’oro assegnato dalla A-League, più un altro paio di premi da parte della ESPN. Poi sono stato eletto miglior giocatore della stagione anche da tutto l’ambiente del Western United, e ho conquistato pure il premio per il gol più bello. Ma le cose che per me contano veramente sono l’affetto della gente e gli attestati di stima ricevuti dall’intero mondo calcistico e sportivo australiano: ne vado orgoglioso e spero ne vadano orgogliosi tutti gli italiani, sapendo che sto portando in alto il nome dell’Italia in un Paese così grande e importante, dove peraltro vivono moltissimi nostri connazionali emigrati».
Insomma, di smettere non se ne parla. Invece Kone, a soli 33 anni, ha detto basta e ora punta a diventare allenatore. «Eh sì, purtroppo Pana l’ho perso per strada, non aveva più gli stimoli giusti per continuare. Lui è davvero una bella persona e un ragazzo intelligente, se ha preso questa decisione è perché evidentemente riteneva che fosse la cosa più giusta da fare. Lo considero un fratello e lo appoggerò sempre, consapevole che saprà farsi valere anche in un’altra veste: ha le qualità e il talento per fare tutto ciò che vuole».
Simone Minghinelli
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