«Massimo, Massimo, Massimo!», come nel film Il gladiatore, era solita gridare dopo ogni suo gol la Curva Andrea Costa, quando ancora restrizioni e distanziamenti non erano nemmeno pensabili. Quel Massimo è Marazzina, centravanti di razza che sotto le Due Torri ha trascorso ‘solo’ quattro anni, un periodo che però è sembrato più lungo per via dell’amore viscerale con la piazza e i compagni (un po’ meno con gli allenatori che si sono susseguiti). ‘Il conte Max’ arrivò a Bologna nel 2006 e ci rimase fino al 2010, impreziosendo le 126 presenze in maglia rossoblù con 48 reti, la vetta più alta della sua carriera in un singolo club (al Chievo furono 46). Trascinatore di una città intera, che il 1° giugno 2008 tornò a respirare la Serie A dopo tre stagioni, oggi siamo riusciti a parlare un po’ di calcio con lui, espatriato – e felice – a Miami.
Massimo, anche quest’anno il Bologna ha terminato la propria corsa circa a metà classifica: cosa serve alla squadra per il definitivo salto di qualità? «Senza troppi giri di parole, è una responsabilità che si deve prendere il presidente, facendo ulteriori investimenti. Per andare in Europa bisogna continuare a far crescere i giovani talenti ma servono anche due-tre grosse operazioni di mercato, comprando giocatori di spessore per alzare la famosa asticella. In caso contrario ci si salva senza alcun patema, magari entrando nelle prime dieci, e nulla più».
Diversi senatori hanno concluso la loro avventura rossoblù: si prospetta un nuovo ciclo, ripartendo a livello di esperienza da elementi come Soumaoro, Soriano e forse Arnautovic? «I veterani sono preziosi perché sanno gestire le situazioni complicate, soprattutto con le parole all’interno dello spogliatoio. Quest’anno alcuni di loro non hanno dato un apporto decisivo sul campo, disputando un girone di ritorno in netto calo, come ad esempio Danilo. Cosi non è stato per Palacio, che forse sarà quello più difficile da sostituire, anche se Arnautovic è un nome intrigante. Nel Bologna, come detto, ci sono tanti giovani bravi che però non hanno ancora alle spalle anni di Serie A, quindi c’è sempre bisogno di giocatori più esperti che li guidino nel loro percorso di crescita».
Un mix equilibrato di giovani e veterani è quindi la soluzione migliore? «Dipende da quali sono i reali obiettivi. Se si vogliono subito i risultati bisogna puntare anche su gente più rodata, perché va bene creare delle squadre giovani e frizzanti ma nei momenti difficili bisogna appellarsi a chi conosce la categoria e sa cavarsela in determinate situazioni. Per crescere al meglio, un gruppo giovane deve necessariamente avere al suo interno qualche giocatore più ‘anziano’, capace di dare i consigli giusti e di porsi come esempio e guida. Oltre ovviamente al mister, e in tal senso Mihajlovic è una garanzia».
Qui a Bologna hai lasciato un segno indelebile, soprattutto nel campionato 2007/08 con i 23 gol e la promozione in A. I tuoi ricordi legati alla piazza, invece, quali sono? «Bologna è una città in cui mi sono trovato benissimo. L’ultimo anno di B è stato l’apoteosi, mentre in quelli successivi ho fatto più fatica e il mio carattere non mi ha aiutato molto… Devo però dire che i compagni mi sono sempre stati vicino, sia quando giocavo e segnavo che nei periodi trascorsi in panchina. Quando sono tornato al Dall’Ara prima della pandemia, per la festa dei 110 anni e la partita con le BFC Legends, mi sono sentito a casa perché tantissimi tifosi mi hanno ricoperto d’affetto, e di questo gli sarò sempre riconoscente. Quando fai bene e vinci diventi quasi immortale, ma Bologna sa apprezzare i giocatori e le persone anche al di là dei risultati ottenuti sul campo».
Ormai vivi a Miami da diverso tempo: che differenze noti tra il calcio americano, comunque in crescita, e quello europeo? «Secondo me anche negli USA dovrebbero introdurre i concetti di promozione e retrocessione: penso che questo favorirebbe soprattutto la crescita dei giovani, sarebbero spronati a migliorare e a non sedersi mai. Poi l’intero movimento deve migliorare dalle basi, perché non ci sono corsi altamente formativi per i ragazzini di 12-13 anni, l’età in cui si formano i futuri calciatori lavorando sui fondamentali: tanti allenatori non sono professionisti ma gente che magari alla mattina vende case o insegna ginnastica a scuola. Quindi non c’è da stupirsi che i pari età europei siano anni luce avanti».
Nel tuo futuro vedi un ritorno in Italia, magari proprio come tecnico? «Direi di no, tempo fa Delneri mi aveva chiesto di fargli da secondo ma non me la sono sentita. Al momento non ho interesse e non ci tengo nemmeno a fare il corso a Coverciano, non sono il tipo. Peraltro il calcio è in continua evoluzione e mi piacerebbe che ad insegnarlo fossero volti giovani, più al passo coi tempi. Per ora mi diverto a prendere questo meraviglioso sport nella sua forma più pura e semplice, collaborando con le scuole calcio e insegnando ai ragazzini, vivendo insomma di passione. Anche se spesso i genitori, indipendentemente dalla latitudine, sono fin troppo pressanti nei confronti dei propri figli… Nella vita mai dire mai, ma ad oggi posso dire di star bene qui a Miami con la mia famiglia».
L’ultima curiosità è su Euro 2020: quali sono le tue favorite? L’Italia è tra queste? «L’Italia di Mancini gioca bene e ha una buona squadra, negli ultimi due-tre anni si sono affacciati alla Nazionale diversi ragazzi di valore. Penso però che la Francia, quella con l’organico più completo in assoluto, e il Belgio, con gente come De Bruyne e Lukaku, siano le principali indiziate al successo finale. Noi siamo un gradino sotto, insieme a Inghilterra, Germania e Spagna. Ovviamente da italiano sto tifando forte per gli azzurri e spero che possano farci esultare, i presupposti ci sono tutti».
Lorenzo Bignami
© Riproduzione Riservata
Foto: Imago Images