Oikonomou: “Per me Bologna sarà sempre casa, incredibile la promozione del 2015. Alla squadra ci tenevo troppo, con Donadoni qualche problema”
L’immagine più nitida che conservo del 9 giugno 2015, la serata di Bologna-Pescara e dell’ultima promozione in Serie A, è quella di Marios Oikonomou che al triplice fischio finale si ferma immobile sotto la tribuna e alza le braccia al cielo tre, quattro volte, prima di crollare a terra. Eravamo esausti noi giornalisti, lo era tutto il popolo del Dall’Ara, figurarsi i calciatori in campo, al termine di una stagione massacrante e di novanta minuti agonici, gol di Sansone a parte. Sì, Oikonomou, forse il principale simbolo di una squadra tirata su dal nulla in meno di mezza estate dall’allora d.s. Filippo Fusco, mentre sulla società incombeva lo spettro del fallimento, e di un gruppo pieno di ragazzi arrivati come comparse e diventati subito protagonisti. Testa alta, portamento elegante e interventi puliti, dopo quella notte magica il difensore greco è rimasto sotto le Due Torri per altri due campionati (74 presenze complessive e 4 gol, tutti in B e tutti decisivi), alternando ottime prestazioni a improvvisi blackout che via via lo hanno portato a perdere il posto da titolare. Oggi Marios ha 27 anni, gioca in patria nell’AEK Atene e ha arricchito la sua carriera con una breve ma intensa esperienza in Champions League. A sentirlo parlare, però, si ha la netta sensazione che non abbia mai svestito la maglia rossoblù. Non lo dice apertamente ma lo lascia intendere: il suo sogno è di tornare ad indossarla.
Marios, è un piacere ritrovarti: come vanno le cose in Grecia? «Molto bene, la situazione è sotto controllo. Il Governo ha visto quello che purtroppo stava succedendo in Italia e ha ordinato subito il lockdown, stoppando sul nascere la diffusione del virus. Due settimane fa abbiamo ripreso gli allenamenti di gruppo e il 6 giugno ripartirà anche il campionato».
Per chi si fosse perso qualcosa, ripercorriamo le ultime tappe della tua carriera… «Dopo una stagione veramente brutta e piena di infortuni vissuta tra Spal e Bari, nell’estate 2018 ho pensato che fosse arrivato il momento di tornare in patria. Mancavo ormai da cinque anni e l’AEK Atene aveva spesso manifestato interesse, così ho accettato il trasferimento in prestito. Tutto sommato è andata bene perché, oltre a qualificarci per la Champions, siamo arrivati terzi in campionato e in finale di Coppa di Grecia».
Che emozioni regala la Champions League? «Era l’unica cosa che sognavo da bambino, più della Nazionale o di altri traguardi, ce l’avevo sempre fissa in mente. Avevo ragione, perché non è un torneo come gli altri, è una festa del calcio. Lo avverti già all’inizio della settimana, quando ti arrivano i palloni e tutto il materiale UEFA e il centro tecnico si riempie di giornalisti. Poi, una volta che superi i preliminari e arrivi ai gironi, diventa davvero uno spettacolo straordinario».
In seguito cos’è successo? «La mia idea era di rientrare a Bologna e giocarmi di nuovo le mie chance, non mi aspettavo che l’AEK provasse a riscattarmi. Invece è accaduto proprio questo, ed essendoci un accordo tra i due club mi sono dovuto adeguare. Ma non ho perso la speranza di tornare un giorno in Italia, è il mio principale obiettivo».
La tua avventura a Bologna era partita alla grande, poi sei andato in calando: perché? «È un enorme rammarico. Dopo quel primo anno indimenticabile, chiuso con la promozione in Serie A, ho continuato a giocare spesso titolare, anche sotto la gestione Donadoni, offrendo buone prestazioni e contribuendo a raggiungere la salvezza. Poi sono successe tante cose… Quando sono andato via ho analizzato un po’ tutto con più distacco e maturità, e mi sono reso conto che spendevo un sacco di energie pensando troppo agli aspetti extra campo, come il rapporto con l’allenatore o il fatto di non ricevere lo spazio che a mio avviso meritavo. Fatto sta che mi ci intestardivo, e quando arrivava l’occasione non ero pronto per coglierla».
Quindi un problema psicologico e di concentrazione, più che tecnico-tattico. «Sì, era una questione soprattutto mentale. In quel gruppo ero molto legato a Ferro e Maso (Alex Ferrari e Adam Masina, ndr), e anche se adesso sembrerà una sviolinata ai tifosi, non riesco davvero a spiegare quanto tenessimo alla squadra. Era qualcosa che andava fuori dal piano professionale. Di solito un professionista pensa prima di tutto a se stesso, al contratto, alla carriera, talvolta anche se qualcosa non va sta muto, aspetta e incassa. Noi no. Se vedevamo certe cose che non ritenevamo giuste, provavamo a cambiarle, a sistemarle, e questo ci ha tolto energie e ha inciso sul nostro rendimento, tanto che alla fine ce ne siamo andati tutti e tre».
Se ho capito bene, la rottura non è stata con la società ma con Donadoni… «Con la società non ho mai avuto problemi, anzi. Nel 2015 il Napoli mise parecchi soldi sul tavolo, ma Di Vaio venne da me e mi disse: “Marios, decidi tu cosa fare, per noi sei importante”. In seguito rinnovai e devo dire che il club mi ha sempre accontentato e sostenuto. Con l’allenatore sì, qualche problema l’ho avuto. Magari lui provava a migliorarmi ma lo faceva nel modo sbagliato, almeno secondo me. Oppure gli errori erano miei, forse col tempo lo capirò meglio, fatto sta che intanto mi sono ‘giocato la casa’, perché così mi sentivo a Bologna».
Passiamo ai ricordi felici, quelli legati alla promozione del 2015. Una vera impresa, pensando a com’era iniziata la stagione… «Il direttore Fusco fece un lavoro egregio, costruendo praticamente da zero una rosa con tutti gli elementi fondamentali: portò i giocatori di qualità, quelli d’esperienza, quelli che volevano farsi conoscere, quelli in cerca di riscatto, quelli capaci di fare spogliatoio, e nel giro di una settimana la squadra divenne gruppo. Arrivammo in ritiro a Sestola che ci conoscevamo in tre o quattro, e dopo pochi giorni eravamo tutti amici e più uniti che mai: incredibile».
Unico neo, il brusco calo nel finale di campionato. Ma le attenuanti c’erano eccome. «Sì, credo fosse comprensibile visto tutto ciò che avevamo attraversato, dentro e fuori dal campo. La Serie B è infinita, o ti porti subito in vetta con un certo margine oppure diventa dura. Noi all’inizio partimmo male, perdendo l’occasione di scappare via insieme al Carpi, e nonostante un buon rendimento ci ritrovammo a dover battagliare fino alla fine».
Una prima importante svolta arrivò a Terni alla quinta giornata, proprio grazie ad un tuo splendido gol di testa. «È vero, avevamo già vinto una partita ma da lì in poi iniziammo ad ingranare sul serio. Sempre a proposito di svolte, c’è un altro episodio che ricordo con piacere, anche se legato ad una sconfitta…».
Racconta… «Innanzitutto va detto che la B non è certo un bel campionato, non c’entra nulla con la A, è un altro mondo. Avevamo appena perso 1-0 ad Avellino e negli spogliatoi c’era grande amarezza. Dopo la doccia eravamo rimasti solo io e Marco Di Vaio, ci guardammo negli occhi e lui mi disse: “Promettiamoci che qui non ci torneremo mai più”. Mancavano ancora cinque mesi al termine della stagione ma era già una promessa di Serie A: aveva ragione».
Con un epilogo, quello del 9 giugno, che fu il riassunto perfetto dell’intera annata. «Prima della finale di ritorno contro il Pescara eravamo in cinque-sei con guai fisici che di solito ti impediscono di giocare: io non riuscivo a sollevare la gamba sinistra per un blocco totale ad un nervo, Matuzalem era lesionato forte alla coscia, Mimmo (Maietta, ndr) aveva un ginocchio messo male e così via. Eppure nessuno alzò la mano per chiamarsi fuori, ormai l’obiettivo era lì ad un passo e bisognava agguantarlo. Così stringemmo i denti, andammo in campo e ci lasciammo tutto, fino all’ultimo respiro, per noi stessi e per i tifosi: bellissimo».
Sarai felice di sapere che il tuo attaccamento alla maglia e alla piazza non è mai stato dimenticato. «Quelli che mi conoscono bene, e a Bologna sono tanti, sanno che rapporto ho avuto e ho ancora adesso con la città e con la gente. Per me Bologna sarà sempre casa, sembra incredibile ma devo avvisare più amici quando torno lì che quando rientro in Grecia (ride, ndr). Mando un grandissimo saluto ai ragazzi della curva e a tutti i tifosi rossoblù, saranno sempre nel mio cuore. E non lo dico tanto per dire».
Simone Minghinelli
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