A qualcuno il suo nome può richiamare alla mente soltanto il famigerato pasticcio delle buste legate alla comproprietà di Emiliano Viviano, risalente al giugno 2011, ma Stefano Pedrelli rappresenta ben altro: uno stimato e stimabile professionista capace di farsi strada nel mondo del calcio, da trent’anni a questa parte, cominciando nel ‘suo’ Bologna, proseguendo in realtà come Venezia, Palermo, Siena e Spezia, e ricoprendo anche l’incarico di direttore generale della Lega Serie B. Una persona perbene con valori chiari, definiti, per i quali ha sempre combattuto nella speranza di migliorare il mondo del pallone, rendendolo quanto più sano e genuino possibile: questa intervista è stata dunque l’occasione per guardare insieme a lui al passato, analizzare il presente (specie quello rossoblù) e provare a scrutare il calcio del futuro.
Sedici anni trascorsi nel Bologna con varie mansioni e ruoli: quali ricordi conservi con maggior piacere? «La mia esperienza nel Bologna è stata caratterizzata da situazioni e momenti anche opposti tra loro. Porto sempre con me la stagione 2010/11: siamo riusciti a fare gruppo e con coesione abbiamo affrontato le difficoltà di quell’annata, riuscendo come una vera e propria famiglia ad uscire da una situazione estremamente difficile, evitando il fallimento del club anche grazie al rapporto di reciproca sincerità e fiducia instauratosi tra dirigenti, impiegati, staff tecnico e calciatori».
Da tifoso, cosa apprezzi particolarmente del BFC targato Motta? E dove può arrivare questa squadra? «Quello che mi ha colpito è l’impianto di gioco cosi funzionante: ogni ragazzo che entra sa cosa deve fare e aiuta la squadra a rendere malgrado le assenze dovute agli infortuni, trasformando potenziali alibi in opportunità e risultati. E non era facile, contando le cinque-sei defezioni di media. Raggiungere l’Europa, obiettivo che via via potrebbe diventare concreto, significherebbe poi doversi confrontare con una certa mentalità e determinati ritmi, e farci l’abitudine: l’esempio più recente è la Fiorentina, che nel corso della stagione ha dovuto pagare uno scotto abbastanza naturale».
Come si gestisce la quotidianità di una squadra sollecitata dall’esterno (tifosi e stampa) ad inseguire obiettivi di primo piano? Più una pressione o uno stimolo? «Non credo che le sollecitazioni rappresentino un problema in casa rossoblù, anzi, ritengo siano un elemento positivo perché gli sportivi sono per loro natura portati a migliorarsi. Per il Bologna non raggiungere la Conference League non rappresenterebbe un fallimento: l’esistenza stessa di quel pungolo può aiutare un ambiente da questo punto di vista molto ‘tranquillo’ a restare sul pezzo fino alla fine del campionato, cercando di fare sempre meglio e di crescere anche in vista del prossimo futuro».
Siamo appena entrati nel nono anno di gestione Saputo: i tuoi pro e contro. «Di Saputo, oltre ovviamente alla serietà e alla solidità economica, apprezzo molto l’umanità, come quella dimostrata portando avanti il più possibile il percorso di Mihajlovic nonostante le fisiologiche difficoltà, il tutto quando aziendalmente parlando sarebbe stato più facile voltare pagina prima. Di contro poteva forse essere gestita in modo diverso una struttura costi importante, non solo sul piano sportivo, e probabilmente non siamo stati così ‘dirompenti’ con le istituzioni sia calcistiche, vedi la partita Cagliari-Bologna dell’anno scorso, che cittadine: a Firenze, simile a Bologna per dimensioni e orientamento politico, il nuovo Franchi verrà pagato quasi per intero dal Comune tramite il PNRR, qui il nuovo Dall’Ara lo finanzierà per la maggior parte Saputo. Però io so di essere un ‘talebano’ quando si parla del mio club, vorrei sempre un’attenzione e dei riguardi particolari verso di esso. Da tifoso ci si poteva aspettare qualcosa di più in termini di crescita e risultati, ma bisogna tenere sempre presenti le contingenze occorse di stagione in stagione. Durante questi otto anni il BFC ha avuto esperienze non positive con Corvino e Sabatini, che pure sono riconosciuti come professionisti di eccezionale spessore, ma oggi con Sartori ha preso il numero uno, avvalendosi di una struttura corposa e all’avanguardia».
Qual è invece il tuo giudizio sull’operato dell’a.d. Fenucci, sia come dirigente del Bologna che come rappresentante della società con gli organi nazionali? «Claudio è un amico anche se abbiamo caratteri diversi, il suo è più diplomatico e signorile mentre il mio più focoso e sanguigno. Per come sono fatto io, mi piacerebbe vedere da parte di chi rappresenta un club irreprensibile come il BFC un atteggiamento di critica sì costruttiva ma anche severa e di discussioni sistemiche nei confronti e all’interno delle istituzioni, portando avanti punti fermi e precisi anche se certamente scomodi per il futuro di un sistema che oggi non brilla in quanto a limpidezza e lungimiranza. Mi sarei aspettato di vedere Fenucci consigliere di Lega o consigliere federale, per le sue capacità, per i suoi modi e perché rappresenta una società pulita sotto ogni aspetto: sarebbe il giusto riconoscimento per lui e per il Bologna, che tanto ha sofferto in passato. Credo infine che meriti un plauso per come ha saputo gestire, con la massima oculatezza, un periodo davvero difficilissimo come quello del COVID».
Passando all’area tecnica, come valuti l’impatto di Sartori? «La sua avventura rossoblù è partita tra mille difficoltà, dovendo capitalizzare in un mercato che faceva seguito ad un bilancio estremamente negativo e potendo quindi operare in maniera ridotta in entrata. Ho conosciuto Sartori di persona, non è il tipo che entra in un ambiente come un elefante in una cristalleria ma lo fa in punta di piedi: a Bologna si è già adattato e porterà i cambiamenti che riterrà necessari coi tempi giusti, in modo graduale, probabilmente già a partire dalla prossima estate. La principale differenza rispetto a Corvino e Sabatini è proprio questa, è meno irruente e lavora con atteggiamenti e tempistiche più morbidi rispetto ad altri direttori sportivi, pur avendo uno standing altissimo che gli consentirebbe anche maggior decisionismo».
Hai conosciuto Di Vaio nei panni di bomber e capitano, oggi indossa quelli da dirigente: avresti immaginato questo futuro per lui? «Ci ho creduto per primo, tant’è che nel 2011 proposi io a Marco e al club l’idea di un futuro da dirigente quando ci trovammo a trattare il rinnovo del suo contratto in scadenza: eravamo in forti difficoltà economiche, dunque bisognava trovare una soluzione che avesse un appeal diverso da quello meramente monetario. La proposta prevedeva la parte calcistica e, dopo la conclusione della sua carriera sul campo, l’impegno della società a farlo entrare come dirigente all’interno del BFC. Già lo vedevo nelle vesti odierne perché era pienamente inserito nella realtà Bologna, molto legato alla città e ai colori, inoltre è un ragazzo con tanta voglia di imparare e che ha sempre fatto gruppo».
Le proprietà straniere nel calcio italiano sono sempre di più, ma non riescono ad incidere in modo significativo: come e quando potranno contribuire ad un reale cambiamento? «Agli investitori stranieri va palesata fin da subito la nuda e cruda realtà, ovvero le difficoltà intrinseche al nostro calcio, gli aspetti positivi ma anche i difetti atavici del sistema italiano, senza indorare la pillola. Devono comprendere a pieno lo scenario entro cui si muovono, così da riuscire a rendere efficace il bagaglio di conoscenze ed esperienze che portano con sé: l’obiettivo primario dev’essere quello di apportare una serie di modifiche regolamentari volte al miglioramento e alla linearità dei comportamenti, perché spesso qui si approvano norme che non solo agevolano condotte non consone ma finiscono anche per essere nocive a medio-lungo termine».
Più show e intrattenimento, più potere ai giocatori, meno legami e meno attenzione al lato prettamente sportivo: il calcio sta davvero andando in questa direzione? «Il calcio sta tentando di arrivare meglio alle nuove generazioni, che hanno caratteristiche molto diverse rispetto alle precedenti: i giovani d’oggi sono frenetici, multitasking, sempre alla ricerca di nuovi stimoli, si legano più al singolo calciatore, alle sue giocate e al suo stile piuttosto che ai club, dove peraltro non esistono più bandiere in cui identificarsi. Perciò è e sarà sempre più decisivo sapersi rivolgere ai ragazzi attraverso iniziative, metodologie di comunicazione e magari anche competizioni diverse, con l’obiettivo di trattenere la loro attenzione e rinfocolare, seppur in forma un po’ diversa, quella passione che sembra si stia smarrendo».
Riccardo Rimondi
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