Fra meno di tre settimane il Bologna tornerà a calcare il prato del Dall’Ara e lo farà contro la Juventus di Cristiano Ronaldo. Il nostro, però, è un universo a tinte esclusivamente rossoblù, e quindi abbiamo pensato a Cristiano Scapolo, duttile ed elegante centrocampista varesino che sotto le Due Torri dal 1995 al 1997 ha collezionato 73 presenze, 13 gol, una promozione in Serie A, due semifinali di Coppa Italia e un settimo posto nel massimo campionato. Mica poco. Trasferitosi in America nel 2006 al termine di una carriera che lo ha visto indossare, tra le altre, anche le maglie di Roma, Napoli, Inter e Atalanta, Scapolo vive tra Los Angeles e l’isola di Maui (nelle Hawaii) con la moglie Nicole e la figlia Francesca, da circa quindici anni allena i ragazzi e attualmente fa parte dello staff tecnico delle Nazionali giovanili statunitensi. Nonostante il diverso fuso orario, nella tarda serata di ieri siamo riusciti a contattarlo, per farci raccontare la sua nuova vita e ripercorrere insieme quel magico periodo bolognese…
Cristiano, ti abbiamo rintracciato grazie a Facebook. Ma dove sei adesso? «Alle Hawaii con mia moglie e mia figlia. Abbiamo casa anche a Los Angeles, ma finché la situazione non migliora preferiamo rimanere qui. Piuttosto, so che in Italia va un po’ meglio…».
Facendo i dovuti scongiuri, sembra che il peggio sia passato. «Io seguo con particolare attenzione la Lombardia perché sono originario di Varese e nella zona del Lago Maggiore ho ancora i miei genitori, che hanno più di ottant’anni ma per fortuna stanno bene. Però mi raccontano che è stata una roba davvero tosta».
Da quanto tempo sei negli Stati Uniti? Alleni i ragazzi, giusto? «Mi sono trasferito nel 2006. All’inizio ho lavorato quattro anni per il Milan, abbiamo aperto delle Academy qui, poi sempre in California mi sono fatto una bella trafila a livello di settori giovanili, e adesso sono nello staff delle Nazionali Under USA, ricoprendo a rotazione il ruolo di allenatore capo o di assistente. L’unica parentesi con i ‘grandi’ l’ho vissuta quando il c.t. era Klinsmann, per due anni ho fatto parte del suo staff come talent scout».
Dopo tanta gavetta pensi sia arrivato il momento di guidare una Prima Squadra? «Lavorare con i giovani regala enormi soddisfazioni, è una bellissima esperienza che mi ha anche permesso di viaggiare tanto. In febbraio, ad esempio, siamo andati in Inghilterra per un torneo UEFA con i padroni di casa, l’Olanda e la Spagna. Però sì, grazie all’esperienza accumulata mi sento pronto per il salto in MLS, se capitasse l’occasione vorrei provare. Amo allenare e stare sul campo, è molto diverso da quando giocavo ma la mia passione per il calcio non è cambiata».
La nostra Serie A la segui ancora? «Certo che sì, e ovviamente anche le Nazionali Under 16 e 17. A livello giovanile mi sembra che il calcio italiano stia finalmente migliorando, ora c’è più qualità, però bisogna fare degli ulteriori passi avanti in termini di mentalità. Di recente ho avuto modo di parlare con Maurizio Viscidi, il coordinatore delle selezioni giovanili, e devo dire che sta facendo un buonissimo lavoro».
E del Bologna cosa mi dici? «È sempre nel mio cuore. Peraltro noi ragazzi del periodo 1995-1997 abbiamo un gruppo su WhatsApp e ci sentiamo almeno una volta a settimana, siamo tutti sparsi qua e là nel mondo ma l’amicizia ci tiene ancora uniti. Anche con mister Ulivieri sono rimasto in contatto».
Ricordo benissimo quel tuo gran diagonale in semifinale di Coppa Italia contro il Vicenza, vanificato al 90’ dal gol dell’ex Cornacchini: la mia prima delusione da tifoso. «Che peccato quella partita lì, proprio all’ultimo… E appunto ci segnò Giovanni, che fino a qualche mese prima era un nostro compagno di squadra. Fu una vera mazzata, perché avevamo compiuto una cavalcata splendida e chissà, magari ai rigori ci saremmo presi noi la finale».
Meglio passare alle note positive, su tutte la promozione in A del 2 giugno 1996. «In quel campionato non partimmo tanto bene, poi però arrivammo lanciatissimi al rush finale e il gol di Bresciani al Chievo fu una vera e propria liberazione. Mi emoziono ancora oggi ripensando all’abbraccio dei bolognesi, alla loro incontenibile voglia di festeggiare dopo gli anni bui del fallimento e della Serie C: una piazza del genere meritava di tornare sul palcoscenico più importante».
L’annata seguente, da neopromossi, subito un settimo posto. «E saremmo potuti arrivare addirittura terzi o quarti, senza gli infortuni e le squalifiche rimediati nelle ultime giornate. Ne parlo spesso in chat con Torrisi, Marocchi, Paramatti e gli altri, giocavamo un gran calcio e avremmo meritato di andare in Coppa UEFA. Bei tempi quelli, col direttore Oriali, col cavalier Gazzoni…».
Stavo appunto per chiederti un ricordo del presidente, venuto a mancare il 24 aprile. «Ho sofferto molto quando mi è arrivata la notizia della sua scomparsa. Gazzoni era un uomo d’altri tempi, di grande stile e saggezza, una persona che col mondo del calcio non c’entrava nulla. Ci ha sempre fatto sentire a nostro agio, parlava poco ma quando lo faceva erano parole fondamentali, che pesavano».
Peccato per il tuo addio, proprio mentre stava arrivando Baggio… «Eh sai, son decisioni, se si potesse tornare indietro (ride, ndr)… Per me la Roma rappresentava una realtà nuova, un banco di prova importante, ma purtroppo andò male: dopo un buon inizio, la pubalgia mi tenne ai box per sei mesi. Si diceva che avessi problemi con Zeman, ma la realtà è che i guai fisici non mi diedero mai la possibilità di esprimermi al meglio».
Tornando al presente, credi che i rossoblù possano ripetere l’exploit dello scorso campionato e magari arrivare in Europa League? «Ogni stagione fa storia a sé, a maggior ragione quella attuale che si chiuderà tra mille incognite e fattori da considerare: la condizione atletica, gli infortuni, il caldo e così via. Però la squadra mi piace, i valori sono buoni. E poi Sinisa ha il carisma, la competenza e adesso anche l’esperienza per fare grandi cose: portare il Bologna in Europa già quest’anno, dopo tutto ciò che è successo, sarebbe la perfetta chiusura di una vicenda umana e professionale incredibile».
Una gioia che anche il patron Saputo meriterebbe. A proposito, cosa si dice di lui nel mondo MLS? «A Saputo viene riconosciuto il grande merito di aver portato Montreal sulla mappa del calcio americano, investendo tempo e parecchio denaro. Purtroppo il rendimento recente della squadra è stato inferiore rispetto a quello delle altre due canadesi, Vancouver e soprattutto Toronto, quindi ora mi auguro che con Henry in panchina e grazie al coordinamento tecnico di Sabatini le cose inizino ad andare meglio: tradotto, bisogna centrare sempre i playoff».
Altrimenti avanzeremo la tua candidatura a coach degli Impact… «Magari, sarebbe fantastico (ride, ndr)! Nel caso chiederei qualche consiglio a Marco (Di Vaio, ndr), che conosce benissimo il club e la città. Una cosa è sicura, per ottenere buoni risultati negli Stati Uniti devi conoscere bene i meccanismi e le regole in vigore qui, dal salary cap per gli ingaggi al draft per scegliere i giocatori: se non formi la rosa come si deve è un problema».
Grazie della piacevole chiacchierata Cristiano, ti lascio all’Oceano Pacifico. Beato te… «Però un po’ l’Italia mi manca, davvero. E se dovessi scegliere una città dove vivere sarebbe Bologna, senza alcun dubbio. Ci ho portato un paio di volte anche mia figlia e mia moglie, che è americana, ed è piaciuta molto anche a loro. Ha qualcosa di speciale, è difficile da spiegare… E poi sotto le Due Torri ho ancora tanti amici: non vedo l’ora di tornare per una bella mangiata di tortellini, rigorosamente in brodo».
Simone Minghinelli
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