Torrisi: “Tanti ostacoli, ma credo che la stagione verrà finita. Saputo e la società hanno trovato la quadra, entro due anni si può andare in Europa”
Uno dei difensori più iconici degli ultimi trent’anni di storia rossoblù è senza dubbio Stefano Torrisi, che con la maglia del Bologna ha messo insieme 165 presenze e 1 gol (indimenticabile, quasi da centrocampo contro il Genoa) dal 1995 al 1998 e poi dal 2004 al 2007, contribuendo soprattutto alla promozione in A e alla successiva qualificazione in Coppa UEFA sotto la guida tecnica di Renzo Ulivieri, nella seconda metà degli anni Novanta. Piedi educati e parole pungenti, mai banale sia dentro che fuori dal campo, da diverso tempo ‘Toro’ vive e lavora a Praga con la moglie Petra: oggi lo abbiamo intervistato per conoscere la sua percezione dall’estero della complessa situazione italiana, con particolare attenzione al mondo del calcio, e per alcune considerazioni sulla squadra di Sinisa Mihajlovic e sulla gestione societaria di Joey Saputo.
Stefano, come vanno le cose in Repubblica Ceca? «Abbastanza bene, nel senso che i numeri del virus non sono alti come in Italia, per ora abbiamo circa 4.500 contagi e purtroppo 72 morti. Da tre settimane siamo in quarantena e ci sono svariate restrizioni, ma con la mascherina si può comunque girare per strada: qui tutti rispettano le regole, è una cultura totalmente diversa. Noi italiani saremo sempre un popolo che si crede al di sopra delle regole e fa di tutto per aggirarle, questo è il nostro problema più grande».
A Praga gestisci alcuni negozi di abbigliamento insieme a tua moglie: il contraccolpo economico si avverte già? «Alcune attività, tra cui la nostra, sono state temporaneamente chiuse, altre sono rimaste aperte e procedono con le dovute precauzioni. Lo Stato si è mosso bene fin da subito, garantendo dal 60 all’80% degli stipendi a quei lavoratori che si sono ritrovati a casa per via di uno stop forzato dal Governo, pagando loro i contributi e abbassando gli affitti. Qui non si respira quell’aria di pessimismo e incertezza che c’è in Italia, dove la cosiddetta ‘fase 2’ temo inizierà fin troppo tardi, per non parlare delle polemiche. Leggo i quotidiani e ascolto i telegiornali online, non c’è nessuno che la pensi allo stesso modo, è un continuo darsi addosso: facciamo ridere».
Forti polemiche pure nel calcio, vedi quella tra AIC e Lega Serie A sulla questione stipendi… «Quando giocavo mi ero iscritto all’AIC ma più che altro perché era un passo dovuto, ammetto di non averci mai creduto più di tanto. Non lo dico per criticare Tommasi o chi lo ha preceduto, ritengo semplicemente che il peso dei club, specie quelli di Serie A, sia troppo forte, e inoltre che non si possano mettere sullo stesso piano i top player e i giocatori di B o C. Il tifoso medio ha in testa lo stereotipo del calciatore ricco e famoso, ma non esistono solo i Cristiano Ronaldo, nelle categorie inferiori ci sono ragazzi che superano di poco i 1.000 euro al mese e che giustamente adesso non vogliono allinearsi. Da qui in avanti, peraltro, sarà ancora peggio, perché molte piccole società rischiano di saltare in aria. L’AIC deve quindi tutelare soprattutto questi ultimi, senza perdersi in polemiche sui giocatori di prima fascia dagli ingaggi dorati, che probabilmente non conoscono neanche l’esistenza del sindacato».
Anche riguardo all’eventuale ripresa del campionato ne abbiamo sentite di cotte e di crude. «Sarà sicuramente un caso ma le società che premono maggiormente per il blocco definitivo sono quelle che si salverebbero al pelo, stando alla classifica attuale. Ce ne sono poi altre già rassegnate e consapevoli che retrocederebbero comunque, vedi il Brescia, a cui conviene risparmiare qualcosa in più sugli stipendi. Suppongo invece che i club dal dodicesimo posto in su preferiscano riprendere, potendo ancora puntare a determinati traguardi o quantomeno a scalare un po’ la classifica e prendere più soldi dalle televisioni. Infine c’è la Juventus, a cui lo stop non cambierebbe chissà quanto sul piano finanziario, oltre a consegnarle un altro scudetto».
Cambierebbe di più alla Lazio… «Lotito è un personaggio particolare, ma per quanto concerne la gestione societaria resta un esempio da seguire. Negli ultimi anni la Lazio è cresciuta sempre di più mantenendo bassi i costi, e ora potrebbe addirittura vincere lo scudetto, quindi dal suo punto di vista ci sta di spingere per la ripartenza».
Tu sei dell’idea che tra maggio e giugno il pallone tornerà a rotolare, seppur a porte chiuse? «Sì, sono convinto che questa stagione verrà portata a termine, ci sono troppi interessi in ballo: troveranno il modo, che sia giocando ogni tre giorni o tramite dei playoff e playout a eliminazione diretta. L’ipotesi dei maxi ritiri, ovvero dalla ripresa degli allenamenti fino alla fine del campionato, è intelligente e interessante, ovviamente sanificando i centri tecnici o le strutture preposte ad ospitare atleti e staff. I problemi maggiori si porranno per i trasferimenti da una città all’altra, la permanenza in quel luogo prima e dopo la gara, la limitazione dei contatti, ma con grande attenzione e tante precauzioni si possono ovviare».
Basterebbe però un solo tesserato positivo, ed è già accaduto, per far saltare di nuovo tutto… «Questa non è la classica epidemia in cui da un giorno all’altro ti svegli e hai zero contagi, finché non ci sarà un vaccino temo che qualche caso continuerà a spuntare anche a distanza di tempo, ma una soluzione va comunque trovata. Credo non abbia senso annullare una stagione e iniziarne un’altra, proprio perché non ci sono certezze sul prossimo futuro. Detto ciò, l’ostacolo principale mi sembra quello dei contratti da prorogare oltre il 30 giugno, e non so se a tal proposito si riuscirà a far passare una linea comune. Una società potrebbe dire: “Quel giocatore non lo voglio più vedere, perché devo tenermelo altri due-tre mesi?”. E di contro il giocatore in scadenza potrebbe rispondere: “Io qui non voglio più starci, il 30 giugno me ne vado”. Insomma, un bel casino. Qualora si riuscisse ad arrivare in fondo, bisognerebbe poi aprire immediatamente il mercato per liberare sia i club che i calciatori da questo impiccio».
Entrando in territorio rossoblù, quanto è bello il Bologna di Mihajlovic? «Negli anni pre-Sinisa ero critico perché vedevo una squadra che, oltre a vincere poco, non entusiasmava e non coinvolgeva il pubblico. Invece il Bologna di Mihajlovic ha fatto centro: nei risultati, nel gioco, nel cuore dei tifosi, nell’animo di una città intera. Questo gruppo ha ridato credibilità ad un progetto in cui noi tifosi avevamo smesso un po’ di credere, ribaltando le opinioni dei contestatori, e devo dire che nell’ultimo anno e mezzo anche la società si è mossa in modo perfetto, ha trovato finalmente la quadra. I ragazzi presenti adesso in rosa, guidati da un vero leader, hanno dato vita ad una solida alchimia fatta di motivazioni, interessi comuni e qualità, e riescono quasi sempre a dare il meglio di loro».
La sensazione è che per tornare in Europa non manchi tantissimo… «All’inizio avevo collocato il Bologna tra l’ottavo e il decimo posto, quindi all’incirca nella sua posizione odierna, poi però durante il campionato mi sono reso conto che alcune squadre più quotate stavano toppando, e che quindi si poteva aprire uno scenario ancora migliore. Se l’Europa non dovesse arrivare quest’anno, credo sia comunque un obiettivo centrabile nei prossimi due, vista la struttura della rosa attuale: l’età media è bassa, molti giocatori chiave sono nella fase della piena maturazione, l’ossatura è solida. E se strada facendo si dovessero perdere un paio di veterani, vedi Danilo e Palacio, basterebbe intervenire in maniera mirata per sostituirli adeguatamente e restare competitivi, senza alcuna rivoluzione».
Come sottolineavi, nel recente passato hai spesso punzecchiato il patron Saputo, che dopo quel famoso Bologna-Frosinone ha cambiato marcia, tornando ad investire sulla squadra e legandosi ancora di più ai bolognesi. «Quella contestazione ha rotto qualche muro che si era creato tra società e tifoseria, o per poca comunicazione o per incomprensioni. Arrivò in un momento brutto e difficile ma la considero benedetta, perché ha reso più ‘fisico’ il rapporto tra Saputo e Bologna, avvicinando molto di più alla città anche la squadra. Non è stata una contestazione violenta ma intelligente, e lui l’ha affrontata in maniera altrettanto intelligente: non è scappato ma ha accettato il confronto, mettendoci la faccia. Credo che in quel momento Saputo si sia reso conto di avere ancora la gente dalla sua parte, ma anche di non poter più rimandare la seconda fase del progetto, dando subito un segnale forte in termini di crescita. In breve tempo ci è riuscito, e il merito va condiviso con i giocatori, con i dirigenti che li hanno scelti e con l’allenatore».
Lo scorso 9 ottobre, tornando sul prato del Dall’Ara per la Partita delle Leggende, quanto ti sei emozionato? «Moltissimo, anche perché erano dodici anni che non ci rimettevo piede da giocatore. È stata una bella emozione per una serie di motivi: innanzitutto per il fatto che mi hanno chiamato, considerandomi quindi un calciatore importante nella storia del club, poi perché ho rivisto tanti ex compagni di squadra e amici, e infine per la cornice di festa, divertimento e amarcord. Si è trattato di un avvenimento importante, coronato dalla presenza del Real Madrid e dalla diretta su Sky, e devo fare i complimenti al Bologna per l’impeccabile organizzazione. Nell’ottica di diventare un top club a livello europeo e mondiale, eventi del genere rappresentano un veicolo commerciale e pubblicitario veramente notevole».
Ma la vera notizia è che nessuno si è fatto male… «Ci eravamo preparati tutti per tempo, lo sapevamo da almeno un paio di mesi. Nonostante l’età e il peso abbiamo tirato fuori l’orgoglio, non volevamo farci vedere in condizioni critiche (ride, ndr)».
Sempre a proposito di leggende, cosa si prova a giocare con Roberto Baggio? «Baggio ha disputato un solo campionato in rossoblù ma ancora oggi rimane uno dei simboli con cui viene identificato il Bologna, insieme ai vari Schiavio, Bulgarelli, Signori e Di Vaio. Questo per testimoniare la grandezza della figura. Giocare con Roby è stata una gioia e una gratificazione immensa, perché parliamo di un fuoriclasse con pochi eguali, inoltre ha permesso a quella squadra di restare nella memoria collettiva di tifosi e appassionati. Tutto il gruppo però era molto valido, a cominciare da Ulivieri in panchina, tant’è vero che arrivammo ottavi e andammo in Intertoto, e negli anni successivi molti di noi vennero acquistati da società di vertice».
C’è un difensore di oggi in cui ti rivedi? Magari Danilo… «Al di là che il calcio di adesso è più fisico e rapido, non c’è un giocatore in cui mi rivedo particolarmente. Riguardo a Danilo, io avevo più tecnica, lui però è migliore di me in marcatura e nel complesso mi piace molto. Io ero un centrale un po’ atipico, infatti ad inizio carriera facevo la mezzala e poi sono stato arretrato da Ulivieri ai tempi di Modena. Una caratteristica che ci accomuna è quella di esaltare le qualità di chi ci sta a fianco: prendiamo ad esempio Bani, un acquisto che non mi convinceva troppo ma che un passo alla volta è cresciuto a livello sia tattico che di personalità, e in tal senso la presenza di Danilo ha inciso tanto. Faccio lo stesso discorso anche per Lyanco, che è forte ma a Bologna lo è sembrato ancora di più grazie al supporto del suo più esperto connazionale. Tomiyasu, invece, mi è piaciuto fin da subito, ma sappiamo che i giapponesi hanno un approccio e un’applicazione ben diversi dai nostri. Dico bravo anche a Denswil, che in un momento difficile in cui rischiava di restare fuori ha saputo ritagliarsi uno spazio in un’altra posizione, sfruttando l’assenza di Dijks e Krejci. In generale, l’intelligenza e la disponibilità sono doti che nei rossoblù di oggi non mancano, e a differenza delle qualità tecniche quelle sono difficili da allenare e migliorare».
Esagero se dico che il Bologna attuale può essere il degno erede di quello di Ulivieri prima e Mazzone poi? A livello di emozioni, per me è così. «Credo che Mihajlovic e i suoi giocatori siano proprio su quella strada, e l’augurio che gli faccio è quello di poter centrare l’Europa alla prima occasione realmente disponibile. A quel punto sono sicuro che si tornerà a sentir parlare dappertutto di un grandissimo Bologna, e che molti di questi ragazzi sapranno lasciare il segno anche a livello internazionale».
Simone Minghinelli
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