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Turkyilmaz: “Bologna la mia seconda casa e Corioni come un padre, non doveva finire così… Oggi seguo Aebischer e tifo sempre per i rossoblù”

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Kubilay Turkyilmaz rappresenta uno di quei giocatori, nella storia recente del Bologna, capace di conquistarsi un posto importante nel cuore dei tifosi nonostante le annate difficili e i pessimi risultati di squadra, una vera e propria luce come ragazzo e professionista dentro uno dei periodi più neri nella storia del club. L’avventura in maglia rossoblù del bomber svizzero, iniziata nel 1990 in Serie A e terminata nel 1993 con la retrocessione in Serie C1 e il fallimento della società, si è contraddistinta per le 25 reti nelle 90 partite disputate in tutte le competizioni: icona del calcio elvetico, nel prosieguo della sua carriera ‘Kubi’ si è anche tolto la soddisfazione di segnare in veri e propri templi quali Camp Nou, Old Trafford e Wembley. Oggi, grazie a questa intervista, abbiamo potuto ripercorrere la sua esperienza bolognese dentro e fuori dal rettangolo verde, riscoprendo attraverso una bella chiacchierata un personaggio interessante, profondo amante del pallone e ancora legatissimo alla nostra comunità.

Kubi, dopo la fine del percorso da calciatore sei rimasto in quel mondo? Dal tuo punto di vista com’è cambiato il calcio negli ultimi vent’anni? «Dal 2015 collaboro col Gruppo Corriere del Ticino, nel loro pacchetto hanno TV, radio e giornale: mi diverto a commentare le partite del campionato svizzero, delle competizioni internazionali per club, della Nazionale e anche della Serie A italiana. Oggi il calcio è molto più veloce e dinamico rispetto ai miei tempi, ma a livello tecnico era migliore quello in cui ho giocato io. Il mondo del pallone odierno, inoltre, mi sembra più freddo e chiuso, un contesto in cui i professionisti vengono protetti fin troppo perché la comunicazione è diventata un aspetto fondamentale, bisogna evitare dichiarazioni sbagliate e potenzialmente nocive».

Segui ancora le vicende del Bologna? Qual è l’immagine della nostra realtà che arriva all’estero? «Da qui l’idea è che il Bologna stia facendo un ottimo lavoro: oggi ha una solida struttura di stampo internazionale alle spalle, molto più organizzata in ogni area, dall’amministrazione al marketing, mentre una volta era quasi tutto lasciato in mano al presidente. Secondo me bisogna andare in questa direzione, perché le spese diventano sempre più ingenti e gli introiti sono sempre meno, quindi bisogna essere bravi ad arrangiarsi e ci sono società che in tal senso danno l’esempio come l’Atalanta, il Sassuolo e un po’ alla volta anche il BFC».

Possiamo definire Bologna la tua seconda casa? Quali ricordi conservi della città e della tifoseria? «In Ticino sensibilizzo tutti a tifare Bologna, se non tifano per i rossoblù non parlano con me (ride, ndr). Di sicuro Bologna rappresenta una seconda casa, che sarebbe potuta diventare anche la prima senza quella retrocessione in C1 che mi ha costretto a cambiare squadra in quanto straniero. Che poi io non mi consideravo nemmeno tale ma ormai bolognese, però in quel momento ho dovuto fare altre scelte. Era la dimensione giusta per me, appena arrivato mi sono introdotto nella vita della città, tra la gente ‘normale’, evitando atteggiamenti da divo che non mi appartenevano. Per esempio, se mi chiedevano di andare a giocare a bocce di fronte al Dall’Ara ci andavo volentieri (ride, ndr)».

Il tuo arrivo a Bologna fu accolto con iniziale scetticismo: qual è stato il segreto per ribaltare i giudizi ed entrare nel cuore dei tifosi rossoblù? «Sono arrivato a Bologna con una telefonata al presidente Gino Corioni, ricordo che chiese al d.s. Riccardo Sogliano quale ‘bizzarro’ straniero gli avesse fatto acquistare, visto che parlavo benissimo l’italiano (ride, ndr). Lo scetticismo iniziale era dovuto al fatto che fossi turco-svizzero, nessuno sapeva da dove venissi, poi appunto ho cercato di stare in mezzo alla gente, di vivere non solo la Bologna sportiva ma anche quella cittadina, infine ho avuto la fortuna e il merito di impormi in mezza stagione realizzando una decina di gol».

Stagione 1990/91, un’annata negativa in Serie A ma positiva in Coppa Italia e soprattutto in Coppa UEFA: come te la spieghi a distanza di oltre trent’anni? «Nei momenti importanti abbiamo perso per infortunio giocatori fondamentali come Bonini, Incocciati e Poli: quel Bologna aveva grande qualità ma c’era sempre qualcosa che non andava, non appena le cose cominciavano a girare si tornava al punto di partenza, eravamo sempre in apnea e non siamo riusciti a trovare la giusta e necessaria continuità. Comunque, nonostante non ottenessimo risultati positivi, il pubblico ci stava vicino e ci supportava, non ci hanno mai contestato».

Quale ricordo conservi del presidente Corioni? Fu appunto lui a portarti in Italia nel 1990 e nuovamente nel 2000, a Brescia… «Pure lui, come detto, era un pochino scettico al momento del mio arrivo, poi pian piano ho iniziato a farmi conoscere e a frequentare anche la sua famiglia, e alla fine sono diventato come un figlio aggiunto. Ci siamo sentiti spesso anche dopo la mia partenza, abbiamo sempre discusso di calcio perché lui era un vero intenditore ed appassionato. Gli sono entrato nel cuore, proprio come lui è entrato nel mio: due mesi fa sono passato da Brescia e mi sono fermato al cimitero per salutarlo, perché nella vita non bisogna mai dimenticare chi ti ha fatto del bene».

Che coppia con Detari: giocate, lampi di classe e gol, nonostante tutto… «Lajos era un fuoriclasse, io un giocatore normale: abbiamo trovato l’intesa in primis fuori dal campo e poi l’abbiamo portata sul manto erboso, dove ci intendevamo a meraviglia. Lui aveva molti alti e bassi, in una partita faceva cose straordinarie e poi non le confermava in quella successiva, ma aveva tutte le qualità per giocare ad altissimi livelli e non a caso è stato accostato ai club di vertice della Serie A. Probabilmente avrebbe preferito trovarsi dentro un contesto diverso, in una squadra che lotta per vincere e non in una impantanata nei bassifondi, perché era uno di quei talenti che se inseriti nell’ambiente giusto rendono ancora di più».

La sensazione è che la tua avventura sotto le Due Torri sarebbe proseguita a lungo, se non fosse stato per la doppia retrocessione e il caos societario. «Fosse dipeso solo da me non sarei mai andato via, ma all’epoca in Serie C1 gli stranieri non potevano giocare. La mia idea era quella, infatti firmai per tanti anni quando c’erano Corioni e Gnudi, poi purtroppo non si è capito più nulla: noi giocatori non sapevamo cosa stesse succedendo, in quella confusione purtroppo la società è fallita e tutti sono dovuti andare altrove. Quando prendo a cuore un club e una squadra voglio provare a dargli soddisfazioni, ma in quel periodo veramente eravamo troppo disturbati da quanto accadeva fuori: non avevamo la tranquillità e la serenità necessarie per mostrare le nostre qualità, e quando sei troppo sotto pressione non rendi per come dovresti».

Dallo scorso gennaio un tuo connazionale, Michel Aebischer, gioca nel BFC: come giudichi i suoi primi dodici mesi in rossoblù? «Ho notato che all’inizio giocava meno, oggi invece trova più spazio: è uno di quei giocatori che va aspettato e con cui serve pazienza nel periodo di ambientamento, forse paga anche il fatto di non essere troppo appariscente ma in ogni partita macina chilometri e sa abbinare la quantità ad una buona qualità. Qui in Svizzera ha vinto tanto con lo Young Boys ed è da tempo nel giro della Nazionale: la sua timidezza come ragazzo non va scambiata con mancanza di personalità sul campo, quella non gli manca e l’ha già dimostrato. Forse è stato accolto con eccessiva freddezza e non con la giusta considerazione, ma quanti elementi nella rosa del Bologna possono vantare come lui numerose presenze in Champions ed Europa League?».

Lui e tutti gli altri li vedrai all’opera dal vivo venerdì 27 marzo… «Esatto, sarò in tribuna allo stadio Dall’Ara per Bologna-Spezia e non vedo l’ora di emozionarmi, perché so che già che andrà così».

Riccardo Rimondi

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