Il dibattito calcistico si è attorcigliato su due macro-argomenti: la data di un’eventuale ripresa dell’attività, seppur a porte chiuse, e la quantità di denaro persa per lo stop forzato, con la conseguente ‒ e inevitabile ‒ richiesta di un intervento statale e della riduzione degli stipendi dei calciatori.
Ma se per il secondo argomento possiamo ancora attendere, stante la difficile quantificazione del danno, sulla prima problematica si è invece già sentito di tutto, compreso quella fastidiosissima ‒ a mio avviso ‒ frase del «chiudere tutto e ripartire a settembre!».
Partendo dal presupposto che spesso coloro che affermano ciò sono gli stessi che si dicono sicuri che la pandemia non si arresterà a breve, per cui non vedo come si potrebbe ripartire a settembre (non così lontano dal giugno-luglio ipotizzato e sperato dai dirigenti calcistici), essi si uniscono inoltre al coro del «tanto peggio tanto meglio», tipico di chi ragiona con parti poco nobili invece di usare il cervello.
Bloccare i campionati di calcio, e uso il plurale perché mi riferisco non solo a quelli italiani ma anche a tutti quelli europei, vuol dire buttare a mare un sacco di quattrini anche per chi col calcio ci lavora, ci guadagna e sostiene le famiglie, aumentando il PIL di questo disastrato Paese.
Il tanto bistrattato calcio produce infatti il 7% del PIL nazionale, permette di lavorare direttamente a 250.000 soggetti e porta nelle casse dell’erario oltre 9 milioni di euro all’anno.
Le attività collaterali sono poi innumerevoli. Provate ad immaginare quante altre persone e quindi famiglie sono coinvolte: vendita di gadget e merchandising, esercizi commerciali che trasmettono le partite con annesse consumazioni, TV, radio ed editoria, agenzie di scommesse, siti dedicati con relativi sponsorizzazioni, agenzie pubblicitarie, agenzie di noleggio mezzi (anche se a porte chiuse, ad esempio, una serie di soggetti devono comunque assistere alle partite e quindi viaggiare).
Fortunatamente chi dirige l’industria calcio sta tentando, ove possibile, di salvare la stagione, arrivando nel caso anche a stravolgere le abitudini estive degli addetti ai lavori. Questo per garantire una continuità all’annata, per tenere in piedi un movimento che mantiene centinaia di migliaia di persone, e per dare un significato a otto mesi di campionati che altrimenti andrebbero archiviati come uno scherzo: «Ragazzi, avete corso e sudato, vi siete arrabbiati e infortunati, avete fatto sacrifici e lavorato sodo così, per niente…».
Il calcio non è fatto solo di campioni ricchi sfondati, ma anche di onesti pedatori che portano a casa stipendi che non superano quelli di un buon quadro aziendale, e lo stesso vale per le maestranze che lavorano all’interno delle società: per costoro, finire la stagione vorrebbe dire vedersi riconosciuto ciò su cui avevano programmato il loro immediato futuro (così come i lavoratori di altri settori, sia chiaro), oltre ai meriti sportivi acquisiti sul campo in otto mesi di lavoro.
I calciatori e gli allenatori, seppur professionisti, mettono comunque in campo energie, entusiasmo e dedizione che non devono essere stralciati dal pensiero sintetizzabile nel «chissenefrega del calcio!». Fino a ieri erano i nostri miti, i nostri poster appesi in camera, rappresentavano quei sogni coltivati fin da bambini e ci aiutavano a dimenticare almeno per novanta minuti i tanti problemi quotidiani: ce lo siamo già scordati o è pura ipocrisia?
Per cui, se ci fosse anche solo un piccolo spiraglio per terminare la stagione 2019-2020, tenendo naturalmente conto della salute e della sicurezza di ogni persona coinvolta, sarebbe opportuno sfruttarlo fino in fondo: a rimandare tutto a settembre si fa sempre in tempo, nel caso.
Anticipo già chi avrebbe da ridire tirando fuori la facile argomentazione del rispetto per le tante persone che purtroppo in questi orribili giorni ci hanno lasciato.
Credo che il calcio, sport popolare per eccellenza, possa star vicino anche alle famiglie che hanno avuto dei lutti, magari donando loro sostegno non solo morale. Se ricordate, quando si sono verificate altre tragedie come terremoti o alluvioni il calcio è stato usato per veicolare dei messaggi positivi, non il contrario: potrebbe valere anche oggi.
Le famiglie che stanno soffrendo non credo abbiano da ridire se un pallone torna a rotolare, hanno purtroppo pensieri e dolori più grandi. Semmai potranno giustamente recriminare su altro, su ciò che effettivamente non ha funzionato in Italia. Ma qui mi fermo, perché non mi sembra il caso di inoltrarmi in un terreno scivolosissimo, per usare il gergo calcistico.
In questo periodo a dir poco complicato, anche il più piccolo segnale positivo come la flebile speranza che si possa ricominciare almeno dal calcio potrebbe invece essere proprio un input incoraggiante per la nostra nazione e per le comunità più colpite.
I disfattisti, colore che arrivano sempre a conclusioni da tregenda, dovrebbero già ritenersi sufficientemente soddisfatti, vista la situazione attuale. O non ne hanno avuto ancora abbastanza?
Tosco
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