C’è un nemico invisibile, eppure ben incarnato da molti fruitori della quotidianità rossoblù, che Joey Saputo non aveva messo in conto quando arrivò a Bologna. Un nemico invisibile e, constatando la cronaca recente, ancora invincibile: l’abitudine a perdere. Com’è noto, il Bologna è una delle poche squadre italiane – assieme a Genoa, Torino e Pro Vercelli – ad aver concentrato la maggior parte delle sue vittorie nella prima metà del Novecento. Dal 1925 (primo scudetto) al 1974 (ultima Coppa Italia), in mezzo secolo il Bologna ha vinto tutto quello che mostra ancor oggi il suo palmarès. Il tifoso di oggi, poniamo d’età media tra i trentacinque e i quarantacinque anni, non ha mai visto né vissuto alcun nessun bagliore di quell’epopea. Eppure ne è imbevuto fino al midollo, sia per i racconti delle generazioni precedenti, sia per l’abbondante pubblicistica rossoblù, solitamente e dottamente incline a un approccio nostalgico-rievocativo.
Negli anni, al calar drammatico e irrevocabile delle prestazioni sportive, si è allargata una forbice che ha avuto conseguenze catastrofiche nella lettura della realtà. Si è venuto a creare nel pubblico un senso di impotenza che nove volte su dieci, anche non volendolo, porta a considerare impossibile, o vanamente illusorio, ogni tentativo di risalita o di redenzione. Nemmeno la presenza del più facoltoso e soprattutto generoso finanziatore della storia rossoblù sembra aver scalfito le certezze granitiche di quelli che credono che IN OGNI CASO il Bologna non potrà mai tornare grande. Per un fenomeno spiegabile solo attraverso profonda psicanalisi, si genera in costoro una pulsione ‘schizoide’ che porta a vedere nelle singole sconfitte gli stessi filamenti di DNA degli ultimi cinquant’anni di vita (e di fallimenti) del Bologna.
La realtà, ovviamente, è molto diversa. Dopo aver investito più di 150 milioni di euro in cinque anni, Joey Saputo ha appena varato un piano da (almeno) altri 110 milioni per il nuovo stadio, un progetto che – piaccia o meno – mancava in questa piazza dal 1927. Persino il più sprovveduto ripetente dovrebbe intuire in questo slancio, ancora difficile da comprendere, una chiara intenzione a non disimpegnarsi dal futuro del club. E se non bastasse lo stadio, vengano in soccorso i numeri delle ultime sessioni di calciomercato: 13 milioni più 6 di bonus per Barrow (gennaio 2020), 15 milioni per Orsolini (estate 2019), 15 milioni per la coppia Sansone-Soriano (gennaio-estate 2019), 6,5 milioni per Tomiyasu (estate 2019), 8 milioni per Dominguez (gennaio 2020).
Anche solo nominando metà squadra scesa in campo negli ultimi giorni, salterebbe fuori una cifra superiore ai 60 milioni. Ben spesi? Mal spesi? Si vedrà. Ma con questi numeri, di solito, si pongono le basi per costruire un organico da Europa. Il che non significa andarci al primo colpo, forse nemmeno al secondo. Ma chi non spende questi soldi difficilmente può sperare di farlo anche in dieci tentativi. Poi, chiaramente, è più facile ricordare tutte le volte in cui il Bologna ha fallito: c’è un catalogo di quasi cinquant’anni, quattro retrocessioni in B e due in C, pronto per essere sfogliato con perversa soddisfazione.
Non c’è alcun dubbio che Mihajlovic, nonostante la sua indole fumantina, tutto questo lo sappia e lo veda benissimo, altrimenti non avrebbe allungato fino al 2023 il suo contratto. A breve il serbo, che ieri dopo il fragoroso tonfo di San Siro ha chiesto scusa a società e tifosi e bacchettato i suoi giocatori, si siederà al tavolo con la dirigenza per delineare la giusta strategia atta a rinforzare ulteriormente la rosa, così da poter competere fin da subito per i primi sei-sette posti. Qualcuno ha male interpretato le parole del tecnico, leggendole come una polemica, un distanziamento tra Sinisa e il Bologna: nulla di tutto ciò, a Casteldebole c’è una solida unione d’intenti per allestire una squadra sempre più forte e ambiziosa.
Luca Baccolini
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