La metamorfosi oratoria di Sinisa Mihajlovic è stata notata da tutti: in inverno tuonava contro l’assenza di una punta («non ci vuole un ingegnere nucleare per capirlo…»), oggi affronta invece il capitolo cessioni con inedita disinvoltura («so che non si può fare tutto, comprare e tenere…»). Il bagno di realtà del tecnico mostra i tempi difficili ai quali si sta avviando il calcio italiano, scosso per qualche giorno dal terremoto Super League, ma esposto in realtà ad una più lunga crisi strutturale, che parte dal ridimensionamento dei diritti TV e approda alla disaffezione sempre più estesa dei suoi utenti, sia televisivi che in carne ed ossa.
Il modello scricchiola. Il virus e l’azzeramento del pubblico negli stadi non hanno fatto altro che accelerare la ramificazione delle crepe. Ecco perché Mihajlovic, fiutate le avvisaglie della crisi, preferisce non andare allo scontro dialettico con una società in cui ha finito per identificarsi, e viceversa. In questo momento, del resto, il Bologna è uno dei club più solidi della Serie A. Lo ha dimostrato anche in assenza del patron, con Saputo ormai relegato al ruolo di comandante a distanza e tuttavia assai più in grado, rispetto ad altre proprietà americane del campionato, di mantenere dritta la barra del timone. Così piace a lui, così deve piacere a noi.
Ma il mercato stavolta non sarà solo lacrime e sangue. Sei anni di investimenti hanno portato gradualmente alla costruzione di una rosa simile alla dentatura di uno squalo, l’animale che in natura ricambia più velocemente i suoi denti. Per la prima volta da molto tempo a questa parte, insomma, cedere un gioiello non comporterà la menomazione strutturale della squadra, com’era invece accaduto – con esiti tragici – quando fu venduto Diamanti. Orsolini ha già il suo erede naturale in Skov Olsen (e lo stesso Orsolini, a sua volta, era l’erede di Verdi), Svanberg in Dominguez, Sansone in Vignato.
Se i due sacrificati saranno davvero loro, l’ascolano e lo svedese, non si intravede al momento la remota possibilità che il Bologna ne esca indebolito, fatto salvo l’impegno di reinvestire buona parte dei proventi delle cessioni. È il famoso e chimerico autofinanziamento, vagheggiato anni fa più come slogan che come obiettivo concreto, ma ora finalmente alla portata grazie alla sedimentazione del lavoro e alla continuità del progetto sportivo. Tutto questo, ovviamente, a patto di non sbagliare i nomi della nuova infornata.
Luca Baccolini
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