Sei partite sono bastate a dar fuoco alle micce dei catastrofisti, i quali evidentemente si sono risvegliati oggi dopo un anno passato a seguire il teatro kabuki: per loro la stagione 2018-2019 non è mai esistita. E invece c’è stata eccome, e va considerata come la più importante dell’ultimo decennio. Non sul piano dei risultati sportivi, ma per quello che ha innescato nel ridefinire l’identità e la percezione del ruolo del Bologna nell’orizzonte calcistico italiano. Prendete una sconfitta a caso di quest’anno (due gli esempi: Roma e Udinese) e paragonatela con altri k.o. di un anno fa a questo punto della stagione: notate le differenze? Vi aiutiamo noi: la differenza è nel modo con cui il Bologna (dirigenti, giocatori e staff tecnico) ha vissuto, interiorizzato e raccontato la sconfitta. Un anno fa era la corsa al giustificazionismo, tra arbitri, infortuni, sfortuna, pioggia, vento e caldo (la neve no, non è mai caduta).
Oggi perdere porta ad un’ammissione di responsabilità senza compromessi. Non è l’avversario che è più forte, ma il Bologna che non è stato in grado di batterlo. E così, pur con il doppio dei punti di un anno fa alla sesta giornata, giocando quattro partite su sei fuori casa, sbagliando un rigore da tre punti per l’idea balzana di Sansone (non citiamo il gol della Roma nato da una punizione inventata per non cadere nel vittimismo di cui sopra), nonostante questa infinita serie di nonostante, il Bologna staziona a centro classifica, in linea con i suoi obiettivi stagionali. Dimenticavamo il ‘nonostante’ più importante, ovvero l’assenza di Sinisa Mihajlovic, perché ancora vogliamo credere che la squadra non ne abbia risentito quanto abbiamo il sospetto che sia successo. Al netto di tutto questo, con che coraggio ci si lamenta di questo inizio di campionato?
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