In questa Champions League improvvisamente riapparsa sui cieli bolognesi dopo sessant’anni di attesa, i rossoblù si stanno comportando come uno degli indecisi eteronimi di Fernando Pessoa, travolto dal senso soverchiante della disgregazione del sé. Chi sono, cosa faccio, perché lo faccio, chi potrei essere se fossi altro da me, quanti altri me esistono? Tutte domande senza speranze e senza nostalgie, proprio come il Bologna in questa tornata europea.
Lisbona sembra la città ideale per sublimare il senso di spaesamento generato da una competizione chiaramente fuori portata, in cui il BFC ha fatto semplicemente tenerezza, immobilizzato dall’inazione. Rua dos Douradores, il teatro delle delle aspirazioni frustrate di Bernard Soares (alter ego di Pessoa nel Libro dell’inquietudine), è quella che viviamo vedendoci staccati in solitaria al quartultimo posto con appena un punto. Vincere contro il Benfica (la squadra del popolo, contrapposta agli alto borghesi dello Sporting) non cambierebbe di molto la classifica Champions, ma renderebbe meno burocratici gli ultimi impegni contro il Borussia Dortmund e lo stesso Sporting.
Per inciso, gli Encarnados (‘i rossi’, soprannome derivante dal colore delle maglie) non sono più quella spaventosa macchina da gol degli anni Sessanta, quando potevano contare su un certo Eusebio, ma rimangono pur sempre una squadra che ha perso una sola delle ultime dieci partite ufficiali (anche grazie ai gol del centravanti greco Pavlidis, vecchio pallino estivo di Sartori sacrificato in nome di Dallinga).
Chi andrà a Lisbona sappia inoltre che in mezzora di trenino locale si raggiunge comodamente Cascais, luogo di residenza principale di Thiago Motta e di esilio per Umberto II, l’ultimo re sabaudo, vissuto per molti anni a Villa Italia, dove oggi sorge l’omonimo hotel. Far pace col passato è sempre consigliabile, che si tratti di monarchia o dell’ultimo allenatore rossoblù, rimasto indigesto nel nostro subconscio gastro-calcistico.
Nella storia dell’Europa, Lisbona sembra non curarsi granché dei nostri destini, gettandosi tra le onde dell’Atlantico e dando orgogliosamente le spalle al Continente, come pretendeva l’impostazione ideologica del dittatore Salazar, morto vergine per sposare integralmente la causa della sua nazione. Ma nel 1755 il terremoto che rase quasi al suolo la città, uccidendo 90.000 abitanti su 270.000, aprì un dibattito filosofico-teologico epocale sul senso dell’esistenza umana e delle punizioni che Dio aveva riservato a uno dei paesi più cattolici d’Europa. Voltaire su quest’episodio costruì il suo celebre Candide, dimostrando che l’ottimista crede che questo sia il migliore dei mondi possibili, e il pessimista pure. Un po’ come la Champions del Bologna.
Luca Baccolini
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