Prima che la splendida tripletta alla Fiorentina rinfocolasse qualche speranza di vederlo battere nuovi record col Bologna, il destino di Rodrigo Palacio era già scritto. Altrove, s’intende. A meno di essere inguaribili sognatori, non c’era infatti nessuna possibilità che l’argentino rimanesse in rossoblù. Ma averlo visto segnare tre reti ad un’età in cui molti suoi colleghi hanno già ritirato il patentino di Coverciano ha certamente creato qualche aspettativa. Il calcio però, a differenza della politica, non vive di reazioni istintive.
In una società con una programmazione strutturata come quella del BFC non sarebbe stata credibile una convivenza tra Arnautovic e Palacio. E infatti l’addio del secondo s’è consumato nella maniera più sbrigativa possibile, come se entrambe le parti ne avessero già convenuto da tempo l’opportunità. Ma quella del ‘Trenza’, va ricordato, non è stata una presenza solo simbolica, da uomo-spogliatoio. Prima dei 20 gol e dei 17 assist, il suo contributo più rilevante è stato nell’aver fornito, o rispolverato, un antico paradigma di serietà: non c’è controprova, ma senza di lui difficilmente avremmo avuto idea di cosa significhi stare in campo con la stessa misura di concentrazione dall’inizio alla fine. Dopo Palacio, quell’idea ce l’abbiamo molto nitida, e ci servirà per valutare come pietra di paragone tutti quelli che ne ricalcheranno le orme.
Pur senza la stessa continuità di rendimento, anche uno come Danilo Larangeira merita di abitare accanto a Rodrigo nei nostri ricordi migliori. Che il suo addio fosse addirittura più scontato di quello dell’argentino era cosa nota, almeno fin da quando cominciarono a spuntare articoli sulla necessità di un taglio agli stipendi più alti. Il suo era fra questi. Ma che una squadra che punti (almeno) al decimo posto debba salutare un difensore avviato ai 38 anni, seppur ancora affidabile, mi sembra così scontato da non doverci nemmeno tornare su.
Idem dicasi per il benemerito Angelo Da Costa, uno dei due soli sopravvissuti dell’era Corvino (pensare a come siano volati questi sei anni e mezzo fa davvero impressione). Pure lui, esempio raro di sudamericano dalla testa fredda: mai una volta che abbia creato un problema o alimentato il seme della discordia. Se l’organigramma rossoblù non fosse già pieno, bisognerebbe creargli un ruolo ad hoc in società o nelle giovanili. Chissà che in futuro non possa avvenire.
Ma dopo tutta questa esperienza che si dissolve in blocco (e prima di altre probabili partenze del contingente ‘veterani’), la domanda più spontanea è: chi li rimpiazzerà? La risposta dovrebbe essere: nessuno. E per una ragione molto semplice: se i giovani del Bologna sono davvero arrivati ad un grado di maturazione accettabile, dal prossimo campionato potranno cominciare a camminare da soli. Si parla dei vari Schouten, Barrow, Vignato, Svanberg, Baldursson, Hickey, Tomiyasu, Skov Olsen, Dominguez e Orsolini, ovvero la generazione di mezzo che dopo uno, due e in alcuni casi tre anni di tirocinio ha tutti i mezzi per affrontare un campionato senza insegnanti di sostegno vicino.
È un esame di maturità da cui passa per forza il salto di qualità collettivo. Il leader anziano e forte ha sempre galvanizzato, e in molti casi letteralmente salvato la squadra: ma ora è tempo che il Bologna non viva più di angeli custodi rassicuranti. Troppo spesso sono stati loro ad aver coperto e reso meno evidenti i limiti altrui.
Luca Baccolini
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