I 48 anni del simbolo rossoblù Marco Di Vaio: dai gol alle trattative, un terzo della sua vita è legato a Bologna e al Bologna

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In un calcio che cambia freneticamente i suoi protagonisti sotto i nostri occhi inermi, quella di Marco Di Vaio a Bologna è una storia diversa, anomala, controcorrente, che ci piace ricordare oggi, nel giorno del suo 48° compleanno. Ne aveva 32 quando arrivò in prestito dal Genoa negli ultimi giorni di calciomercato, un’intuizione di Fabrizio Salvatori piazzata in un Bologna neopromosso ma dai piedi d’argilla, tra un cambio di proprietà e una girandola vertiginosa di allenatori (se ne sarebbero visti sette in meno di tre anni). Lo scetticismo che ammantava l’arrivo di questo attaccante fu subito zittito dal gol decisivo segnato al Vicenza in Coppa Italia, a cui seguì quello di San Siro alla prima di campionato: e qui, a essere zittiti, furono i campioni di un Milan ambiziosissimo, popolato da Shevchenko, Ronaldinho, Inzaghi, Nesta e Maldini (e pure Kakà, ma quel giorno era squalificato).
Il gol fu solo il primo di altri 24, tanti quanti ne segnò Diego Milito: soltanto Zlatan Ibrahimovic, con 25 reti, riuscì a fare meglio. Quel minimo scarto, senza il quale il club rossoblù sarebbe tornato ad avere un capocannoniere dopo 26 anni, fu causato proprio da un gesto di generosità di Marco, che in un Bologna-Torino lasciò il rigore a Marco Bernacci, finito presto nel dimenticatoio (quel gol, realizzato dal dischetto, fu anche l’unico della sua carriera nella massima serie). Proprio a Di Vaio, da quella stagione, si legò il destino del Bologna nei quattro anni successivi. In una cronica e tragicomica altalena di potere (decine di potenziali acquirenti, tre trattative di vendita saltate all’ultimo, consiglieri ‘moggiani’, cambi di proprietà multipli, stipendi inevasi e pignoramenti), Di Vaio fu l’unica figura di continuità all’interno dello spogliatoio, rifiutando il trasferimento per un forte senso di gratitudine (prima) e di appartenenza (poi).
La ‘bolognesizzazione’ di Di Vaio, che in città si è trasferito con tutta la famiglia, è stata la versione moderna (un po’ fuori tempo massimo) dei grandi campioni degli anni Sessanta, da Pascutti a Pavinato, che sotto le Due Torri giocavano e poi rimanevano per abitarci, diventando tessuto vivo della città. Dismessi poi i panni del calciatore (con 65 ben gol in 143 partite, per inciso), Marco si è trasformato in qualcosa di più, diventando l’estensione del più importante presidente del Bologna al fianco di Medica, Dall’Ara e Gazzoni: forse è azzardato ipotizzare che sia stato proprio lui a convincere Saputo a rilevare il Bologna, ma nessuno potrà sottostimare il peso dei suoi due anni trascorsi a Montreal fino al 2014, guarda caso l’anno esatto in cui il patron canadese si affaccia al calcio italiano.
Da allora, Di Vaio ha iniziato il suo primo decennio dirigenziale con la stessa applicazione che ha sempre messo in campo: non si è imposto ed esposto subito alla prima linea di fuoco, ma si è accodato ai dirigenti più esperti assorbendone i tratti migliori e sviluppando una rete di conoscenze e contatti internazionali impressionante. Corvino, Bigon, Sabatini, Sartori: una hall of fame dei migliori d.s. italiani degli ultimi vent’anni. «Devo imparare», dichiarò una volta. E così il suo percorso fino all’attuale ruolo di direttore sportivo è andato in parallelo alla lenta ma costante risalita del BFC, squadra sull’orlo del fallimento (nell’estate 2014) oggi assurta all’empireo Champions.
È difficile scindere la crescita di Di Vaio come dirigente da quella del Bologna come società. E al di là di alcuni momenti di tensione (culminati con una vergognosa parata di croci deposte a Casteldebole), quella di Marco a Bologna resta una storia esemplare nella sua rarità. Nemmeno Paolo Maldini, Francesco Totti e Alessandro Del Piero, i grandi della sua generazione, sono riusciti ad aprire cicli di lungo corso tra il campo e la dirigenza del club. Ne ha fatta di strada il ragazzo che negli album Panini di metà anni Novanta ‘smezzava’ l’adesivo con De Angelis, Ingesson e Artistico. Oggi quella ‘mezza figurina’ è diventata un simbolo. Di una squadra, ma anche di una città. Quarantotto anni, sedici a Bologna: un terzo di vita. Più che farti gli auguri, Marco, oggi ti diciamo grazie.

Luca Baccolini

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Foto: Getty Images (via OneFootball)