Un calciatore fermo da fine febbraio ha diritto a percepire lo stipendio di marzo anche se in quel mese ha prodotto solo, nel migliore dei casi, dirette su Instagram? La domanda scuote le coscienze, anche perché tocca i nervi sensibili e populisti del salvadanaio. «Categoria di privilegiati, dessero tutto in beneficenza agli ospedali!». E perché proprio loro e non gli speculatori di bitcoin? Il calciatore paga sempre il prezzo della sua sovraesposizione. In fondo, lo stipendio elevato non gli è conferito per i minuti lavorati (anche dividendo l’ingaggio per il tempo dell’allenamento si otterrebbe un quoziente altissimo) ma per il valore della sua immagine. Non per caso, il calcio viene irrorato dai diritti televisivi. Cioè i diritti sulle immagini. Bene. Il problema posto dal virus è che le immagini si sono interrotte. Riprenderanno, sì, ma non si sa quando. E non si sa per quanto tempo saranno immagini ‘vendibili’. Cioè stadi pieni, gente festosa, esultanze sotto la curva straboccante, tutto ciò che piace a Sky e affini. Altrimenti non si costruirebbero tribune come quelle della Dacia Arena, che anche quando sono vuote sembrano piene.
Il calcio 2020-2021 rischia di essere una stagione a porte chiuse. Se lo sarà davvero, diventerà difficile immaginare il miliardo e due che il calcio italiano si aspetta di ricevere dalle piattaforme televisive. E allora, a cascata, sarà difficile immaginare gli stipendi di oggi, dai 31 milioni di Ronaldo al milione e mezzo di Medel, tutto ovviamente in proporzione. Per i calciatori, poi, sarà vano cercare riparo altrove. Con i principali campionati affetti dallo stesso problema, si potrà espatriare tutt’al più in Medioriente, ma per una legge di mercato fin troppo ovvia l’eccesso di offerta farà calare il valore del bene. Con un danno quasi certo di 300 milioni per i mancati introiti da biglietteria e altrettanti – se va bene – di taglio dei diritti televisivi, il calcio italiano a porte virtualmente chiuse si appresta ad affrontare la più grave austerity dal Secondo dopoguerra.
Il taglio degli ingaggi proposto – e non imposto – dalla Lega è solo un modesto palliativo in vista di ben altre e più dolorose rinunce. Ben fa Tommasi a lamentarsene. È il suo lavoro di sindacalista della categoria. Ma il suo muro servirà a poco, se non a niente. Entro breve, sarà il valore stesso dei calciatori a ridursi così drasticamente da comportare in automatico la svalutazione del loro cachet. Non tutto il male, però, viene per nuocere. Il sistema calcio, per come lo conoscevamo fino a febbraio, era una macchina capace di alimentare per 187 milioni di euro l’anno quel lucroso apparato chiamato procure sportive. Si fatica a immaginare un mondo così in crisi reggere quella cifra spaventosa per pagare le intermediazioni. Forse, prima di discutere il taglio di due mesi di stipendio a Santander e Chiellini, che comunque in campo ci dovranno tornare, è giunto il momento di ripensare il calciomercato, ovvero quelle strutture che lo fanno danzare vorticosamente ogni estate e ogni inverno per autoalimentarsi. E anche il calcio, così, potrebbe tornare ad essere uno sport vagamente più simpatico.
Luca Baccolini
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