In un Paese che dal 4 maggio autorizzerà gli spostamenti di mezza Italia (dando per scontato che una metà dei ‘congiunti’ si muoverà per raggiungere l’altra metà), non si capisce perché il calcio debba continuare a star fermo, esattamente nella stessa posizione in cui era stato lasciato languire due mesi fa. Dopo il 4 maggio un calciatore sarà libero di muoversi (ovvero, si spera di no, di contagiare e di essere contagiato) per andare a trovare un familiare fino al sesto grado di parentela, fidanzate comprese, ma non potrà correre e allenarsi nel centro tecnico della sua squadra.
I controsensi in cui siamo stati tenuti ammollo in questi due mesi sfidano la ragione oltre ogni misura. Siamo stati trattati come poppanti incapaci di prendere decisioni razionali per timore che tutti rosicchiassero un brandello di libertà. È con questa logica che ci è stato impedito di passeggiare in un parco, con grave compromissione della nostra salute e della stabilità mentale di molti: non perché fosse pericoloso, ma per evitare che lo facessero tutti. Come se tutti vivessimo o volessimo vivere 24 ore al giorno ai Giardini Margherita o a Villa Borghese, abbracciati ad un albero.
Paradossalmente, il calcio è caduto vittima di una classe dirigente talmente populista da diventarlo anche contro lo sport più populista di tutti, credendo cioè che riaprire il pallone fosse un gesto eversivo nei confronti dell’emergenza e del lutto nazionale. Anziché partorire subito protocolli di sicurezza e strutture idonee per lo svolgimento degli allenamenti (cabine spogliatoio prefabbricate personalizzate, percorsi, sanificazione a ciclo continuo ecc.), si è perso tempo sulle questioni di principio, se fosse ‘giusto’ o ‘non giusto’ riaprire il calcio, per non parlare del pietoso teatrino sul taglio degli stipendi.
Tutto si può fare, in condizioni di sicurezza, con tamponi preventivi, ritiri obbligatori e totali (niente scappatelle, si sta in albergo o al campo) e norme igienico-sanitarie rispettate. Così come sarebbe giusto, o meglio doveroso, riaprire immediatamente i musei e porre in primo piano la questione della cultura dal vivo, ancora relegata – a sentire il parere di illustri virologi membri del Comitato tecnico-scientifico del Governo – a «bisogno non primario», dunque rinviabile a fine emergenza, quando tutti (attori, musicisti, registi, sportivi non di fascia alta) saranno già stremati di fame o d’inedia.
E invece il calcio, come il cinema, l’opera, il teatro, la musica, è un bisogno assolutamente prioritario. Economico, per il suo gettito fiscale; morale, per il sostegno che dà al passatempo di milioni di italiani; di speranza, per darci almeno l’illusione che qualcosa stia tornando alla normalità. Tenerlo barricato per timore del contagio significa contribuire ad ucciderlo.
Luca Baccolini
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Foto: Damiano Fiorentini