Beato il mondo del cinema, che anche in assenza di capolavori può sempre attingere al repertorio dell’imprevisto, come la manata di Will Smith, provvidenziale per attirare e incrementare dibattito (o, secondo il linguaggio contemporaneo, engagement). E il calcio? Spenti i riflettori sulla figuretta dell’Italia, il pallone nostrano si dimena alla disperata ricerca di un argomento nuovo, ben sapendo che pochi ne avrà a disposizione da qui ai prossimi quattro anni. Roberto Mancini ha un contratto fino al 2026 e con ogni probabilità resterà al suo posto, e questo almeno è un segnale in controtendenza rispetto alla prevedibile tabula rasa che di solito si chiede allo sconfitto. Ma il problema più irrisolvibile non è tanto la – seconda – mancata partecipazione al Mondiale: è il movimento-calcio in sé a dare vigorosi segnali di scricchiolio mortale.
Il calcio è vivo come sport di cortile, ma sono i suoi rappresentanti ufficiali a non godere più di buona salute. Un problema di narrazione sovraeccitata e infestante (anni di talk show a linguaggio unificato) lo ha reso spettacolo di second’ordine, stracco nella sua esasperante liturgia, prevedibile nei suoi sviluppi, letargico nella sua dinamica e ora, acquisito il VAR (vero e ultimo killer dello spettacolo) nel DNA metodologico e psicologico, anche a prova di imprevedibilità. Che destino può avere un movimento sportivo che alla sua più alta espressione fallisce sistematicamente l’obiettivo, e che nella sua prassi ordinaria si concede formati fuori tempo massimo, dilatati su più giorni per cercare un’ormai inutile occupazione perenne dei palinsesti quotidiani? Forse che Andrea Agnelli ci aveva visto giusto, a predicare la necessità di una radicale riforma calcistica, sbagliando comunque nei modi e nella forma della nuova proposta?
Mentre qui, ai tiepidi lidi nostrani, la curva si picca ancora di prendere posizione pro o contro Marco Di Vaio, come se questo fosse un problema, tutt’intorno sta sopraggiungendo lo sfacelo di uno sport che alla generazione dei 2010 riserverà il primo Mondiale – forse – nel 2026, quando sarà già troppo tardi per sottrarre quei ragazzi all’egemonia divorante del virtuale (inteso come sport virtuale, se non addirittura come vita virtuale, quella che già stiamo vivendo). E allora sarebbe meglio che i club, anziché banchettare sulle ultime briciole rimaste dal paniere scarnificato dei diritti televisivi, si mettessero di slancio a studiare strategie di potenziamento del pubblico, il famoso audience development per usare un linguaggio caro ai manager, ed evitare così la totale desertificazione degli spalti, peraltro già tangibile da mesi per l’effetto congiunto di discutibilissime norme anti-COVID e manifesta disaffezione galoppante.
In gioco non c’è il futuro del Bologna, ma dell’intero calcio, che è lo sport che presuppone l’esistenza stessa del Bologna. Il fatto che questo straordinario fenomeno umano esista da più di cent’anni non autorizza a credere che possa farlo per i prossimi cento. I segnali di crisi ci sono tutti: meno abbonati alle piattaforme, meno spettatori dal vivo, meno dibattito nei bar, meno ragion d’essere. L’eliminazione dell’Italia dalla corsa al Mondiale non è un campanello d’allarme, ma il sintomo vivo di una malattia che sta dilagando, che parte dai campionati dilettantistici e arriva fino alla Serie A, senza parlare della Coppa Italia e della Supercoppa, svenduta al miglior offerente. Non sono sicuro che siamo ancora in tempo per fermare la frana ma, se qualche idea spunterà fuori, sarà di certo da una proprietà straniera.
Luca Baccolini
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