La malattia è solitudine, con o senza i milioni in tasca. Persino uno come Sinisa Mihajlovic, che in vita le aveva viste tutte (guerra civile compresa), ammise che le ore passate in ospedale da solo erano diventate intollerabili. Non ha mai parlato di dolore fisico. Ma di solitudine sì. È impossibile immaginare cos’abbia provato nel suo isolamento, di tanto in tanto rotto da una visita che poteva durare sì e no un quarto d’ora. Questa è stata la sua vita per larghi tratti dell’ultimo triennio. Tutto ciò che crediamo di sapere di Mihajlovic, della sua malattia, della sua forza e del suo coraggio, è solo il risultato di una manciata di minuti davanti alle telecamere. Poco, per toccare il dolore con mano. Ma abbastanza per trarne qualche lezione.
La prima ha un luogo e un giorno precisi: prima giornata di campionato contro l’Hellas al Bentegodi, 25 agosto 2019. Uscire dall’ospedale, dopo la prima sessione di cure, è potenzialmente letale. Sinisa, dimagrito più di venti chili, chiede anzi impone di raggiungere Verona. Lo fa in auto blu per evitare contatti ravvicinati, indossando la mascherina chirurgica, oggetto che da lì a poco avrebbe trovato posto su tutte le nostre bocche. In quel momento dice al mondo una cosa: il lavoro viene prima di tutto. Più della vita stessa. Perché una vita senza lavoro è una vita vuota, non meritevole di essere vissuta. Sinisa, miliardario, famoso, in pace col mondo, potrebbe starsene seduto ad aspettare la fine del suo ciclo di cure. Invece preferisce rischiare e continuare il suo lavoro, non ciò per cui è pagato ma ciò che lo nobilita.
Seconda lezione: non usare la malattia come paravento. Nelle sue ruvide conferenze stampa, fatte anche di rispostacce secche, battute al vetriolo e a volte fuori luogo, non c’è mai stato un solo riferimento alla sua malattia. Mai una volta che lui abbia usato la leucemia come giustificazione, alibi, attenuante generica. «Valutatemi come allenatore, non come malato». Altra frase da scolpire.
Terza lezione, tra le tante: la testimonianza. Mihajlovic non ha mai fatto della sua malattia un fatto privato, non l’ha soffocata nel silenzio egoistico del «no comment». Anzi. Appena ha potuto, ha cominciato una vita parallela da insospettabile showman (Ballando con le stelle, Domenica In, Verissimo, Sanremo). Non penso che fosse improvvisa voglia di notorietà (più di quella che già aveva?) o sfogo di talenti inespressi (quali? Non sapeva né ballare né cantare, come ha ammesso candidamente). È stato invece un modo per dire, a se stesso e agli altri, che anche nella malattia c’è spazio per vivere, che la malattia è un segmento della vita e come tale non va reciso, perché può dare ancora frutti. E infatti in quel segmento Sinisa ha conosciuto la gioia di diventare nonno, di salvare serenamente il Bologna altre tre volte dopo l’impresa impossibile del 2018/19 e di essere pure iscritto alla lista dei concittadini bolognesi acquisiti.
Bisognerebbe salutarlo con un sorriso, per tutto quello che di buono ci ha insegnato, volontariamente o meno, ma forse non è ancora il tempo dei sorrisi, stasera. Oggi resta la sensazione di un tempo che corre rapido, crudele, indifferente. Sinisa che comincia ad allenare a Bologna, nell’autunno 2008. Sinisa che chiude la sua vita da allenatore col Bologna, nell’autunno 2022. Quattordici anni, un soffio. Si rimane aggrappati a qualcosa e non sappiamo neanche perché.
Luca Baccolini
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