Negli anni Duemila, tolte le stagioni di Serie B, la permanenza media degli allenatori sulla panchina del Bologna è stata di 44 giornate (nel calcolo, per non alterare i dati, non si tiene conto nemmeno dell’unica apparizione di Paolo Magnani alla prima contro l’Inter del 2010/11). Quindici mandati tecnici in 21 anni, che diventano 17 considerando i 4 campionati trascorsi in cadetteria. In pratica, in questo primo scorcio di ventunesimo secolo, abbiamo visto alternarsi più nuovi mister al BFC che Governi: nemmeno Palazzo Chigi, con 13 premier diversi dal D’Alema-bis a Draghi, è riuscito a stare al passo di Casteldebole. Viste le premesse, insomma, le 93 presenze di fila (incluse quelle dall’ospedale causa leucemia) della seconda esperienza in rossoblù di Mihajlovic possono già essere ritenute una mezza impresa.
Ad oggi, sotto le Due Torri, c’è chi nutre ancora qualche dubbio sul suo futuro. Chi vuole la testa di Sinisa sta offrendo motivazioni più sentimentali che tecniche: la sua colpa sarebbe specialmente quella di non aver aderito con slancio alla causa e di essersi trincerato dietro a riflessioni pretestuose per nascondere in realtà una forte voglia di migrare altrove. È abbastanza singolare come il calcio sia ancora, nonostante tutto, la proiezione falsata dei nostri desideri di stabilità affettiva. In un’epoca in cui nulla ha più fondamenta (non il lavoro, non le relazioni sentimentali, non la libertà di movimento), non si capisce perché il calcio debba continuare a basarsi su criteri di ‘fedeltà’ e di ‘lunga durata’.
Mihajlovic ha chiesto al club una settimana di relax e assoluta tranquillità, e comunque il fatto che un allenatore con due lauti anni di ingaggio non dia per totalmente scontata la sua riconferma dovrebbe essere un indizio di serietà assoluta. Nel calcio il contratto è soltanto un indicatore del valore del contrattualizzato, non una promessa di matrimonio. Chi se lo scorda, forse, non ha ben chiara la logica che governa questo sport.
Luca Baccolini
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