Le ultime dieci edizioni della Champions League (sostanzialmente l’intera epoca dei social network, la nostra nuova non-memoria storica) sono state dominio esclusivo di tre Paesi: Spagna (4 Real Madrid, 1 Barcellona), Inghilterra (2 Chelsea, 1 Liverpool) e Germania (Bayern Monaco). Nello stesso periodo, l’Europa League è stata un botta e risposta privato tra Spagna e Inghilterra (3 Siviglia, 3 Atletico Madrid, 1 Villarreal; 2 Chelsea, 1 Manchester United). Molti di quelli che hanno potuto festeggiare la vittoria del Parma di Malesani in Coppa UEFA, nel 1998/99, oggi potrebbero già essere nonni; e già padri i ragazzini che si esaltavano per il triplete interista di Mourinho. Queste sono le ultime vittorie italiane in Europa. Nello stesso decennio la Nazionale non ha superato due volte il girone iniziale dei Mondiali, e per due volte non si è nemmeno qualificata alla fase finale. Ha vinto un Europeo, sì, ma è la stessa cosa che possono rivendicare Danimarca e Grecia. Anche i trionfi vanno contestualizzati.
Se gli anni Dieci del XXI secolo saranno ricordati come l’epoca più buia del nostro calcio, per gli agenti sportivi saranno invece celebrati come un decennio d’oro: nel 2021 le squadre della Serie A hanno versato ai procuratori 174 milioni di euro. Soldi ‘necessari’ per favorire cessioni, acquisti e rinnovi di contratto. Nel 2020, la stagione della pandemia, la spesa era stata di 138. In quella precedente, il dato era schizzato a 187 milioni. Certo, sarebbe pretestuoso stabilire un nesso diretto tra arricchimento dei procuratori e crisi di vittorie europee. In mezzo corrono molti altri limiti strutturali – e culturali – del calcio italiano: incapacità di considerare i campionati come un sistema organico, mancanza di solidarietà interna, competizione economica sbilanciata a favore di pochi, ostacoli logistici e burocratici all’accesso agli stadi, sterilità del registro comunicativo dei commentatori e, ultimo in ordine di apparizione, il VAR, che ha di fatto neutralizzato il brivido dell’emozione/imprevisto, facendo entrare la moviola dentro i novanta minuti di gioco e legittimando chi preferisce vivere la partita sul divano di casa.
In questo scenario, non saprei come definire la pur legittima ambizione del Bologna a ritrovare un posto in Europa, a vent’anni dall’ultima sua apparizione, quella della sconfitta contro il Fulham con la tripletta di Inamoto. Sappiamo che Saputo è atteso ad una profonda (auto)analisi sul destino della sua impresa, già costata più di 150 milioni di euro. Probabile, ma non certo, che il futuro rossoblù passi per la terza direzione sportiva diversa (dopo Corvino e Bigon, passando per la meteora Sabatini). Ma qualunque sia la decisione (Sartori, Angelozzi o un terzo ancora non palesato) vien da chiedersi: quanti e quali sforzi sarebbero necessari per immettere nel club una forza propulsiva sufficiente per garantire un campionato da 55-60 punti? E così facendo, quale garanzia ci sarebbe di andare in Europa? E anche tornando in Europa, lo si farebbe da turisti, da agonisti, o giusto per non sfigurare? E in quale stadio, poi?
Come si vede, non dev’essere facile guidare un club costretto per ragioni storiche a navigare nel mare di mezzo, all’interno di una transizione mondiale così complessa. Oggi il Bologna può ancora potenzialmente superare il record di punti dell’era Saputo (47). Basti questo come obiettivo.
Luca Baccolini
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