William Negri e la semplicità dei grandi
Grandi, sì. Tutti i giocatori dell’ultimo scudetto rossoblù sono stati grandi. Ma perché? Per aver battuto la l’Inter? Per aver resistito alle ingiuste accuse di doping? Non solo. C’è molto altro. Prendete la vita di Ezio Pascutti o, appunto, di William Negri, l’ultimo ad averci lasciato di quella leggendaria compagnia che oggi conserva ancora come testimoni viventi solo i totem Fogli e Pavinato e le seconde linee Capra, Corradi, Lorenzini e Rado. Erano dei signori nessuno di una provincia italiana remotissima, appena uscita dalla guerra. Pascutti nato in un paesino friulano di 500 abitanti, metà dei quali emigrati o in procinto di emigrare per l’America. Negri da Governolo, un avamposto della bassa mantovana dove il Po e il Mincio si congiungono per fondare il paradiso delle zanzare. La palla era una camera d’aria di bicicletta o pezze di stoffa arrotolate. Non è un modo di dire, era davvero così. Il football non era nemmeno un progetto, per loro; non si parlava di scuole calcio, di stage, di ambizioni che consumavano – o prosciugavano – l’anima. Si giocava, si tornava a casa, si giocava ancora e si interrompeva tutto, anche promettenti carriere, quando si doveva partire per la leva militare. Negri era stato scartato dal Milan e finì al Mantova, in Serie D. La sua fortuna fu che dopo la naja a Palermo (dove stava per diventare pallavolista professionista, se non avesse perso – proprio a Bologna – uno spareggio decisivo per la massima categoria) rientrò a Mantova e ritrovò la sua squadra in Serie B, pronta per il grande salto in A.
Così era il calcio, un’affascinante combinazione di fattore umano e destino, talento e modestia. Tant’è che Negri, pur arrivando in Nazionale dalla strada più complicata (non ha mai giocato in una grande, è bene ricordarlo) e pur vincendo uno scudetto da protagonista senza saltare nemmeno una gara, dopo il suo precoce ritiro non ha mai cercato di riscuotere altre gratificazioni, né millantato altri meriti. Dignitosamente si è defilato nel triangolo di Bassa che gli era stato imposto dal destino, tra Mantova e Modena. Qualche anno da preparatore dei portieri, ogni tanto in panchina da allenatore. Poi un grande silenzio e rare apparizioni cadenzate a ritmo decennale: la festa dei vent’anni dello scudetto nel 1984, i novant’anni del club nel 1999. Avrebbe potuto vivere di rendita sul suo passato (c’è chi lo ha fatto vincendo molto meno di uno scudetto), e invece non ha mai voluto aggiungere parole vuote a un trionfo che diceva già tutto. William ‘Carburo’ Negri, un passato da garzone nella stazione di rifornimento del padre Azeglio, era quello che abbassò lo sguardo, timidissimo, quando Pier Paolo Pasolini gli domandò a bruciapelo cosa pensasse dei tabù sessuali: «Non ho niente da dire», rispose con una semplicità disarmante in Comizi d’amore (al minuto 21:50, link). Era la semplicità dei grandi. Oggi è rimasta la semplicità dei semplici, e basta.
Luca Baccolini
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