Sinisa a Bologna, una parabola unica: ricordiamocelo
La vicenda umana di Sinisa Mihajlovic non ha precedenti nella storia del calcio. La sua malattia, la sua reazione, la sua ricaduta sono un unicum e, come tale, la ‘gestione’ della situazione da parte del Bologna lo è altrettanto. Stiamo tutti commentando un terreno completamente inesplorato.
Nel giorno che potrebbe portare al suo esonero, tutto questo va valutato con obiettività, concetto abbastanza difficile da affinare quando si parla della salute di una persona.
In questi quattro anni l’uomo Sinisa è stato suo malgrado al centro di tutto ciò che è successo. Dall’annuncio della leucemia in poi è iniziata una storia completamente inedita anche nel rapporto tra l’allenatore e la città.
La vicinanza dei tifosi è stata fortissima: la processione a San Luca ne è la testimonianza più alta, la cittadinanza onoraria la più formale ma non meno sentita.
Da essere «amico di Arkan», Mihajlovic si è trasformato in un simbolo anche per chi – come il sottoscritto – ha idee politiche opposte alle sue: l’umanità dimostrata ci ha fatto commuovere e condividere la sua traversata nel deserto della malattia.
La prima cosa da sottolineare è che la leucemia ha cambiato prima di tutto Mihajlovic, la sua vita, la sua percezione del mondo. Come chiunque si trova ad affrontare la prospettiva concreta di morire, Sinisa è diventato un’altra persona, sicuramente migliore. I suoi racconti e il suo libro testimoniano questo cambiamento che ha per forza di cose impattato anche sulla sua concezione del calcio.
Ricordo molto bene la conferenza stampa di presentazione, quando raccolse da Pippo Inzaghi una squadra derelitta. Nello spiegare la sua idea e il suo modulo diede una sola indicazione precisa: «La difesa sarà sempre a quattro».
Il fatto che tre anni più tardi, dopo la sconfitta di Empoli, abbia deciso di abiurare al suo principale dettame tattico è la dimostrazione di quanto il cambiamento dell’uomo Mihajlovic ha portato a modificare anche la sua filosofia calcistica.
La flessibilità è una dote sempre più apprezzata fra gli allenatori: da Ancelotti a Mourinho, da Allegri a Spalletti, l’idea di adattare il modo di giocare ai propri giocatori e alla situazione che si affronta è un elemento sempre più frequente nel football moderno.
I risultati nel medio termine hanno dato ragione a Mihajlovic anche sul campo: il Bologna era settimo prima del derby dell’Appennino perso con la Fiorentina il 5 dicembre 2021.
Senza addentrarsi in paragoni fra la capacità di adattamento di una persona che affronta cure durissime e cambiamenti fortissimi sul suo stesso corpo e la decisione di fare altrettanto nel suo credo calcistico, è però oggettivo che il passaggio alla difesa a tre ha coinciso con un’involuzione nella qualità del gioco del Bologna.
La squadra briosa e all’arrembaggio del primo e di buona parte del secondo anno ha lasciato il passo ad un undici concreto e compatto che puntava a non prendere gol più che a segnarne uno in più degli avversari.
Lo stesso Mihajlovic era cosciente di questo cambiamento e ha spesso ripetuto che gli sarebbe piaciuto giocare un calcio più offensivo, motivando l’abiura col dover dare «tranquillità alla squadra» e puntando tutto sul carattere di Medel, fulcro del modulo e nuovo leader in campo.
Non va poi dimenticato che all’inizio di questa stagione Sinisa e il suo staff (del quale cui ha dimostrato di fidarsi ciecamente, condividendo sempre di più le decisioni) hanno tentato di modificare quantomeno l’assetto offensivo, provando a lungo in ritiro un attacco a tre punte con l’aggiunta di un elemento offensivo al timido 3-5-2 che ha tarpato le ali più di tutti a Soriano, l’uomo simbolo delle prime due spumeggianti stagioni del serbo.
È oggettivo che le prestazioni fornite dal Bologna nelle ultime due stagioni siano in parabola fortemente calante. L’accentrare tutto il gioco su Arnautovic è solo la conseguenza, non la ragione del cambiamento.
In questo quadro sarebbe più che legittima la scelta della dirigenza di esonerare Mihajlovic. Ma la sua vicenda umana non può che pesare sulla bilancia delle scelte, specie nei modi e nella tempistica. Non si tratta del «non puoi licenziare un uomo malato» che tanti hanno utilizzato in questi mesi, bensì di rispettarne l’umanità, la figura, la storia a Bologna.
Che il suo ciclo fosse finito la scorsa stagione è un dato di fatto incontrovertibile. Esonerarlo ora significherebbe aver perso tre mesi e ridurre fortemente le prospettive di una stagione partita male non solo per colpa di Sinisa, che di certo non si dimetterà mai.
Da inguaribili romantici sarebbe fantastico se Mihajlovic per primo cercasse di uscire da questa situazione riproponendo il suo ‘vero’ calcio e rilanciando tanti giocatori ora lontani parenti di quelli sbocciati con lui, Soriano e Orsolini in primis.
Ma purtroppo nella vita, come nel calcio, il romanticismo è passato di moda. Tocca farsene una ragione.
Massimo Franchi
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Foto: Getty Images (via OneFootball)