Ora che abbiamo il calendario e qualche certezza in più, possiamo tornare a sognare. In un mondo da cui si alzano grida contro l’ingiustizia e colonne di fumo in mezzo alle mascherine, l’idea di rivedere in campo i colori rossoblù ci fa avvicinare a quella normalità perduta nei lunghi mesi della pandemia.
Sarà un campionato strano come non mai: squadre in campo ogni tre giorni e gare quasi ogni giorno concentrate nel caldo estivo. Condizioni ideali per le sorprese, ed è per questo che a essersi messe di traverso per la ripartenza siano state squadre come Torino, Sampdoria e Udinese che rischiano la Serie B.
Vista la Bundesliga su Sky, eviterei di combattere la tristezza degli stadi vuoti con l’audio tarocco e mi concentrerei ad immaginare qualche forma di presenza virtuale: nel Bologna c’è gente a cui verrà certamente più di una buona idea in proposito.
Giusta invece la proposta del ministro Spadafora (riconosciamoglielo, in parte si è riscattato) di mandare in chiaro almeno un po’ di partite per tutelare i tanti tifosi che non si possono permettere gli abbonamenti a Sky e DAZN.
Però, come scrissi nel mio primo intervento per Zerocinquantuno, tutto questo non ci deve far dimenticare quello che è accaduto (e che – tocchiamoci i maroni – potrebbe riaccadere in autunno) e il perché si riparte. Non ho mai considerato il pallone l’oppio dei popoli e men che meno lo farò adesso. Credo anzi che la maggior parte dei tifosi abbia ancora più consapevolezza e ragione nel pensare che il calcio che vedremo dagli schermi di una televisione sia un surrogato, una necessità economica e non certo popolare.
Per uscire dall’incubo COVID-19 migliori serve far tesoro del documento internazionale delle tifoserie organizzate. Specie nel suo passaggio centrale: «Non c’è calcio senza i tifosi. E non può essere solo un’industria, con le società tenute in scacco dalle pay-TV. Business e interessi personali porteranno alla morte del calcio».
Alla ripresa, e in modo particolare dalla prossima stagione, niente sarà come prima. A cominciare dai soldi, che saranno meno per tutti. E questa non è necessariamente una cattiva notizia nell’ormai ex Eldorado del pallone. Se c’è il rischio di un’accelerazione del progetto di una Superlega europea per i top club, l’alternativa è un vero salary cap stile NBA (monte ingaggi uguale per tutti e scelte dei talenti giovani in ordine inverso di classifica) che ridarebbe veramente interesse alla Serie A e uguaglianza di prospettive alle venti società.
Proprio la gravità della crisi economica rende questa epocale riforma non più un’utopia. Il Bologna e gli altri club più sani e lungimiranti dovrebbero proporla subito, assieme ad una più equa ripartizione dei proventi televisivi (tasto su cui i felsinei hanno già battuto varie volte). E a quel punto sì che ci sarà davvero da divertirsi.
Massimo Franchi
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