In tempi di calciomercato, o meglio, di questi tempi durante il calciomercato, non esistono più certezze. Per quanto un giocatore possa essere il simbolo di un club, con tanto di fascia da capitano al braccio e sommerso dall’affetto dei tifosi, si rimane col fiato sospeso fino al gong della finestra di trattative, consapevoli che da un momento all’altro potrebbe arrivare l’offerta faraonica dello sceicco o del fondo americano di turno a strapparti via il gioiellino di casa. Per questo motivo, da qualche tempo si fa molto fatica a parlare di bandiere: l’attaccamento alla maglia è argomento da nostalgici del pallone.
Tornando indietro negli anni, di storie relative a grandi rifiuti se ne possono raccontare a decine, e tra le più romantiche, ai tempi in cui il calciomercato era pratica legalizzata solo da una decina d’anni (con la storica Carta di Viareggio del 1926, fortemente voluta dal regime fascista per tracciare una netta distinzione tra professionismo e dilettantismo) ma ancora priva di agenti e commissioni milionarie, va menzionata quella riguardante il re dei bomber rossoblù, Angelo Schiavio. A quei tempi, e parliamo del periodo tra gli anni Venti e Trenta, il calcio si stava affermando come sport nazionale, ma fare il calciatore non era di certo un’attività così redditizia come ai giorni nostri (tranne che per le star di allora) e i guadagni non ponevano certo gli atleti nell’élite della società.
Il talento bolognese, arrivato a metà degli anni Trenta ai vertici della sua carriera, rappresentava un’eccezione per l’epoca. Difatti, questi si era sempre rifiutato di farsi pagare dal Bologna e viveva dei guadagni provenienti dall’attività di famiglia, vale a dire il negozio di abbigliamento e articoli sportivi Schiavio-Stoppani, che sorgeva a pochi passi dalle Due Torri, in via Clavature. Si allenava in solitaria ogni giorno prima o dopo il lavoro, e si recava agli allenamenti di squadra solo al giovedì pomeriggio, quando l’emporio chiudeva i battenti. Rifiutò qualsiasi premio personale, sostenendo con modestia che non vedeva il motivo per cui dovessero pagarlo per far qualcosa che amava, e che in ogni caso aveva già un’attività che gli dava da vivere.
Non c’è quindi da sorprendersi della risposta che recapitò al presidente dell’Internazionale Milano Fernando Pozzani, che all’indomani della vittoria casalinga ai Mondiali del 1934 voleva assolutamente portare il campione all’ombra della Madonnina. Ci provò prima attraverso l’intercessione del compagno in maglia azzurra Giuseppe Meazza, poi con una sua chiamata in negozio che avrebbe fatto vacillare qualsiasi uomo d’affari: «Mi faccia sapere la metratura dei suoi negozi, e domani quando la richiamerò me la dirà. In questo modo, una volta che sarà a Milano gliene farò trovare uno della stessa grandezza, ma in Galleria Vittorio Emanuele». Questo, a grandi linee, il contenuto della chiamata, a cui però Schiavo diede replicò prontamente, asserendo che tutta la sua vita si trovava a Bologna e che non vedeva ragioni valide per trasferirsi in quel di Milano.
Il grande rifiuto del goleador rossoblù era inoltre il suo secondo, se si considera quello già avvenuto qualche anno prima di fronte all’offerta del Duisburg, determinato a portarlo in terra di Germania. Anche in quel caso, per di più in giovane età e con la prospettiva di poter intraprendere una carriera ben più redditizia, Anzlein aveva preferito la sua vita bolognese. Le soddisfazioni che ne derivarono, con 251 gol in 364 partite (miglior marcatore nella storia del BFC), 4 scudetti e 3 trofei internazionali in bacheca, gli danno ragione di quella scelta.
Divenne così il simbolo dello ‘squadrone che tremare il mondo fa’ e mai, anche negli anni a venire in cui continuò a seguire le peripezie rossoblù (allenò anche la squadra in più occasioni), si è pentito del suo percorso. Anzi, quando andavano a chiedergli conto del perché avesse giocato per tanti anni senza mai pretendere alcun compenso, lui rispondeva: «Pur di giocare a calcio ce li avrei messi di tasca mia».
Giuseppe Mugnano
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