Scavare nella memoria, a 88 anni, è un esercizio piuttosto faticoso ma allo stesso tempo assai semplice. La mente a quell’età è molto ben strutturata, a compartimenti stagni (almeno così mi piace pensarla), e seleziona con minuzia le informazioni fondamentali da preservare: ricordi, luoghi, persone. Emozioni. Ognuna di esse ha un proprio cassetto, senza chiave e pronto ad aprirsi al minimo soffio di vento. I cassetti della memoria di Gino Pivatelli, attaccante di razza che fece le fortune di Bologna e Milan tra gli anni Cinquanta e Sessanta, sono pochi ma intarsiati in oro, tengono stretti i ricordi più belli di una carriera leggendaria.
Nato il 27 marzo 1933 a Sanguinetto, piccolo comune del veronese, nel 1951 esordì diciassettenne tra le fila del Verona (in quel momento non si parlava di Hellas, denominazione che tornerà a partire dal 1958), mettendo a segno 25 gol in tre campionati di Serie B (di cui 15 solo nell’ultimo, tutti fondamentali per la salvezza del suo club). Un diamante grezzo che gli occhi attenti dei dirigenti del Bologna non si fecero sfuggire, portandolo in fretta all’ombra del Nettuno.
Quel Bologna, dopo gli anni ruggenti dei sei scudetti in meno di un ventennio, stava vivendo un periodo opaco, sempre adagiato a metà classifica. E così in società iniziarono a guardarsi attorno alla ricerca di giovani talenti, per costruire un gruppo di potenziali campioni che invertisse la rotta. Gino Pivatelli rappresentava il profilo perfetto.
Nei primi due campionati di Serie A andò in doppia cifra (11 e 17 reti), per poi compiere un clamoroso exploit nella stagione 1955/56, quando vinse la classifica cannonieri (unico italiano a riuscirci negli anni Cinquanta) con ben 29 gol in 30 partite. Eppure Gino conserva gelosamente il ricordo di una sola partita di quel torneo: «Eravamo in vantaggio a Firenze 3-1 e mancavano pochissimi minuti al fischio finale, quando un esaltato fece invasione di campo. Partita sospesa e 3-0 a tavolino per noi. Ci rimasi molto male, perché quel giorno avevo segnato due reti e mi vennero tolte per quell’episodio. Quindi per me i gol in totale furono 31».
Anche la Nazionale italiana si accorse di lui, convocandolo per i Mondiali in Svizzera del 1954, dove però non scese mai in campo. In quella formazione il numero 10 era sulle spalle del suo compagno di squadra Gino Cappello, un altro col vizio del gol. Alla fine, almeno per quanto concerne la Serie A, l’allievo superò il maestro, realizzando 105 reti in 7 stagioni contro le 80 in 10 del Gino più anziano, complice anche una squalifica di oltre un anno per una presunta aggressione all’arbitro durante un torneo dei bar disputato a Bologna nell’estate del 1952 (Cappello giocava nel famoso Bar Otello di cui vi ho parlato qualche settimana fa).
La sua esperienza nell’Italia fu brevissima, segnata da un acceso diverbio con Gianni Brera («lo mandai a spendere quell’anno dopo la partita contro l’Ungheria, perché non mi piaceva affatto il suo modo di fare»), il quale si vendicò con la sua penna tagliente scrivendo di lui: «Il suo carattere esclude che gli debba toccare mai più l’onore della maglia azzurra. È preferibile l’ultimo dei cianchettoni al primo dei professori morti». Quelle parole di certo non aiutarono il prosieguo del suo percorso in Nazionale, che finì poi nel peggiore dei modi con la mancata qualificazione ai Mondiali del 1958 in Svezia.
Nei sette anni vissuti a Bologna, chiusi con 204 presenze e 109 reti (quinto miglior marcatore nella storia del club), Pivatelli condivise lo spogliatoio con un altro straordinario attaccante rossoblù, Ezio Pascutti (non c’è bisogno che ne ricordi le gesta, sono leggenda), e fece in tempo a conoscere un giovanissimo Giacomo Bulgarelli prima di passare al Napoli nel 1960: «Quel Bologna aveva già molti campioni, ma erano tutti bravi ragazzi senza tanti grilli per la testa. Pavinato poi era un amico, con lui condivisi anche tanti momenti fuori dal campo insieme alle nostre famiglie».
Giunto alle pendici del Vesuvio, Gino trascorse una stagione travagliata tra infortuni e pochi gol (soltanto 3), ma nonostante ciò gli arrivò la chiamata che cambierà la sua carriera: il Milan di Nereo Rocco era alla ricerca di un giocatore che segnasse e soprattutto facesse segnare il suo bomber José Altafini. «Quella squadra era piena di fuoriclasse, io ero un giocatore normale a confronto di Gianni Rivera e José, uno che trasformava ogni palla in gol. Lui, che divenne mio grande amico, mi ripeteva sempre: “Appena prendi palla guarda dove sono e lanciami, che poi ci penso io”». E aveva ragione: in tre anni prima vinsero lo scudetto, poi la prima storica Coppa dei Campioni, sconfiggendo 2-1 il mitico Benfica di Eusebio proprio grazie ad una doppietta di Altafini. Visionando le immagini di repertorio, si può sentire che le ultime parole della telecronaca di Niccolò Carosio sono: «Finale elettrizzante dei rossoneri… Pivatelli, tiro altissimo. Ma ripetiamo, il Milan ha vinto l’ottava edizione della Coppa dei Campioni!». Chiunque respiri calcio, non può non emozionarsi guardando questo filmato. Quella vittoria segnò l’affermazione dell’Italia in Europa, in un’epoca dominata dal Real Madrid e dagli stessi lusitani.
In seguito a quell’impresa storica, Gino appese gli scarpini al chiodo e iniziò la sua carriera da allenatore di squadre di provincia. Dopo dieci anni avari di emozioni e riconoscimenti, durante l’estate del 1987 ecco un’altra chiamata fondamentale, quella del suo antico amore: il Bologna ha appena ingaggiato il carneade Gigi Maifredi (allenatore che aveva fatto parlare di sé per i risultati ottenuti alla guida dell’Ospitaletto, piccolo club bresciano con cui aveva raggiunto un’incredibile promozione in C1) e vuole affiancargli Pivatelli, in possesso del tesserino per allenare in B. Fautore dell’operazione fu il presidente Gino Corioni, in precedenza patron proprio dell’Ospitaletto, che mise subito insieme un organico capace di puntare alla promozione in Serie A. Tutto riuscì alla perfezione: i rossoblù vinsero il campionato cadetto dominando ed esaltando i tifosi con un gioco spettacolare che venne poi ribattezzato calcio champagne, epiteto confermato con pieno merito nelle due ottime stagioni successive. Gino racconta: «In quei tre anni ufficialmente l’allenatore ero io, ma a sedere in panchina c’eravamo ovviamente entrambi. Fu un periodo divertente e con Gigi stringemmo un bellissimo rapporto, togliendoci insieme grandi soddisfazioni». Quei successi valsero a Maifredi l’ingaggio da parte della Juventus, ma la sua esperienza in bianconero fu da dimenticare. Così tornò a Bologna e scelse come suo vice ancora una volta Pivatelli, che nel frattempo aveva guidato anche la Primavera del BFC. Le cose, però, andarono diversamente, e Maifredi venne esonerato dopo 11 gare con appena 4 vittorie.
Fu questa l’ultima avventura di Pivatelli in panchina prima di lasciare il mondo del calcio, una passione che ha comunque tenuto in vita dagli spalti: «A fine carriera – racconta – ho continuato ad andare allo stadio da spettatore per seguire il Bologna, non mi sono perso una sola partita». Oggi Gino vive ancora sotto le Due Torri con sua moglie, che gli fa da memoria storica e gli ricorda di chiamare gli amici per ringraziarli dell’attenzione che ogni giorno dedicano ad un campione mai dimenticato, un grande cuore rossoblù.
Giuseppe Mugnano
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Foto: Gino Pivatelli