Bologna si è regalata una serata romantica per San Valentino, come non succedeva da anni. Mercoledì sera, in un Dall’Ara da quasi 26 mila spettatori, Cupido ha scoccato due frecce dritte al cuore dei tifosi rossoblù, vendicando le brucianti sconfitte inferte dalla Fiorentina nel match d’andata e poi nei quarti di Coppa Italia. E adesso la città sogna in grande, dall’alto di un incredibile quarto posto in classifica a braccetto con l’Atalanta (che il 28 febbraio recupererà il match contro l’Inter), e nelle orecchie di tutti iniziano a risuonare le note della Champions League, che nella sua versione attuale (nata nel 1992) il BFC non ha mai disputato.
L’ultima volta che il Bologna ha solcato un terreno europeo (e lo ricorderanno in molti dato l’amaro epilogo) era il 27 agosto 2002, ritorno della finale di Intertoto: dopo il 2-2 dell’andata, i rossoblù guidati da Francesco Guidolin vennero piegati 3-1 dal Fulham a Londra: da quel giorno, il nulla. Se si pensa invece alla ‘coppa dalle grandi orecchie’, la memoria deve tornare addirittura a sessant’anni fa, quando la competizione si chiamava ancora Coppa dei Campioni e vi si accedeva soltanto vincendo il proprio campionato. Ecco, i campioni d’Italia di Fulvio Bernardini videro sbattersi la porta in faccia già al primo turno per mano dell’Anderlecht e di… una monetina. Sconfitto 1-0 a Bruxelles, il Bologna vinse poi 2-1 al Comunale, pareggiando così il computo delle reti. Perciò, secondo il regolamento vigente all’epoca, per decretare il vincitore era necessario uno spareggio in campo neutro. Così le due compagini si sfidarono a Barcellona il 14 ottobre 1964, in una partita che non si sbloccò nemmeno dopo i tempi supplementari: questo significava che a decidere chi avesse diritto a passare il turno fosse la dea bendata.
Quel giorno al Camp Nou era presente in tribuna anche il secondo portiere felsineo Rino Rado (a quei tempi le riserve non sedevano in panchina), che ha condiviso con noi il suo ricordo di quella serata: «Allo stadio eravamo in trentamila ma pareva di essere in trecento, poiché il Camp Nou era talmente grande che al suo interno ci si perdeva. L’Anderlecht era una squadra fortissima – racconta Rado – che poteva vantare tra le sue fila diversi nazionali belgi, come la stella Van Himst, che nella gara d’andata aveva segnato un bel gol ai nostri. Ci siamo però rifatti a Bologna, vincendo in modo convincente con le reti di Pascutti e Nielsen e sfiorando il tre a zero con Haller prima del loro gol nel finale. In quella partita di spareggio avevamo dominato e solo la cattiva sorte ci aveva tolto il vantaggio. Arrivati al lancio della monetina si disposero tutti a centrocampo, con in mezzo i capitani (Pavinato e Lippens, ndr) e l’arbitro spagnolo (Zariquiegui, ndr). Il primo lancio venne considerato nullo – spiega l’estremo difensore classe 1941 – perché la moneta rimase in bilico sul terreno, anche se alcuni dissero che propendesse più dal lato scelto da noi e che l’arbitro non se la sentì di darci ragione. Quando ci fu il secondo lancio, vidi subito le maglie bianche dei giocatori belgi alzarsi per esultare, e capii che per noi la Coppa Campioni era finita lì. E non solo, perché dopo quella cocente sconfitta la squadra, che già all’epoca viveva conflitti interni e aveva diversi scontenti, si disunì e non fu più quella di prima».
A tal proposito, Rado ci ha spiegato come in quei mesi il nuovo presidente del BFC, Luigi Goldoni (avanzato dal ruolo di vice dopo la tragica scomparsa dell’amatissimo Dall’Ara), facesse molta fatica a mantenere compatta la squadra, e che fin da prima del ritiro estivo a San Martino di Castrozza alcuni giocatori lamentassero il fatto che i premi che erano stati promessi per la vittoria dello scudetto, nonché gli aumenti in busta paga, non fossero ancora arrivati. E quando chiesero al presidente di Lega il motivo per il quale i contratti non erano ancora stati depositati, gli venne risposto che lui non stava agendo in quel modo per sua volontà. Alla fine i contratti furono firmati, ma con un terzo in meno di quanto pattuito. Prima che il clima diventasse bollente, il patron dovette mettere mano al blocchetto degli assegni per saldare quanto stabilito con ciascuno di loro, «oppure non saremmo saliti sul pullman per andare in ritiro. Infatti, quel giorno d’estate dovevamo partire al mattino e invece il motore si accese dopo l’orario di pranzo. Iniziammo così la stagione col grande obiettivo di ben figurare in Coppa dei Campioni, ma forse qualcosa nello spirito del gruppo si era guastato e le cose presero una brutta piega».
Adesso, a sessant’anni di distanza, il Bologna di Thiago Motta ha finalmente e con pieno merito l’occasione di vendicare quel destino beffardo e tornare in Europa dalla porta principale. Confidando, perché no, anche in un pizzico di fortuna.
Giuseppe Mugnano
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