Le staffette solidali del Làbas, una lanterna per gli invisibili (2^ parte)
«Dovunque c’è in mezzo il cielo», scriveva Petronio, filosofo romano vissuto poco meno di due millenni fa. Per capire il senso di questa frase è sufficiente alzare lo sguardo e poi riportarlo all’altezza dell’uomo: da questa nuova prospettiva le differenze si annullano, restano gli uomini e la terra su cui camminano.
Sono invece le strade a spezzarsi, alcune vite ci cadono dentro e si perdono. Da qui nasce il silenzio, l’isolamento, l’’incapacità di comunicare ed essere compresi. In questi buchi, sociali più che temporali, si è recentemente inserito un gruppo di ragazzi, volontari coordinati dal centro sociale bolognese Làbas, che ha creato un progetto, Staffette Solidali, attraverso il quale si cercano di riannodare vite interrotte, laddove domina l’indifferenza. Aiutare chi rimane solo.
«Il progetto Staffette Solidali – spiega Sara Bighini, attivista del Làbas e coordinatrice del progetto – è nato lo scorso anno a partire da un altro preesistente, Staffette Alimentari Partigiane. Col secondo lockdown c’è stata la spinta decisiva per partire e dare una forma concreta alla nostra idea. A dicembre abbiamo lanciato una call for activists a cui hanno aderito quasi 120 persone, e con la quale abbiamo organizzato una prima giornata di formazione per spiegare le linee guida del nostro percorso di volontariato, ovvero il senso politico di fare questo progetto con Làbas. In secondo luogo abbiamo spiegato i dettagli dei servizi che intendevamo offrire, dall’approccio con le persone (qui abbiamo anche uno sportello di psicologia popolare, il Làbas ascolta, che ci ha aiutato nella costruzione di questo progetto) fino ai vestiti e al cibo.
Da gennaio le staffette hanno iniziato le loro uscite in strada, ogni mercoledì per i cinque mesi successivi. Bologna, come il resto del Paese, era in piena zona rossa ma, in quanto associazione e come progetto di volontariato, gli attivisti potevano star fuori nonostante le restrizioni. «Abbiamo iniziato ad avvicinare le persone – continua Sara – distribuendo volantini e mappe per guidarle dalla strada verso il Làbas e dar loro la possibilità di consumare un pasto seduti ad un tavolo, cosa per nulla scontata. In occasione del 25 aprile abbiamo poi organizzato un pranzo solidale, distribuendo pizze gratuitamente». In questa ed altre occasioni, diversi uomini e donne si sono avvicinati per chiedere coperte e vestiti, alcuni hanno cominciato a frequentare la scuola d’italiano, altri hanno iniziato percorsi con gli altri sportelli, altri ancora hanno potuto usufruire di cure mediche di prima necessità.
«Con questo progetto abbiamo avuto l’occasione di raccogliere dati sulle problematiche sociali della nostra città, di toccare con mano i problemi quotidiani di molte persone: l’assenza di una casa e di cibo, del permesso di soggiorno, di un lavoro e di assistenza medica», spiega Ilaria, una delle staffette. A queste mancanze dovrebbe esserne aggiunta un’altra, essenziale: la mancanza di attenzione da parte dello Stato ma soprattutto di molti cittadini, per cui queste persone sono soltanto dei disgraziati, appaiono come invisibili. A loro, quindi, gli attivisti del Làbas hanno donato prima di ogni cosa la loro attenzione, ascoltando le loro storie ed esperienze di vita.
Ilaria racconta delle sue uscite, dei primi approcci, del tentativo di rimanere lucidi di fronte alla sofferenza del proprio interlocutore: «Ho visto tante persone e ascoltato moltissimi racconti. Durante l’ultima uscita, però, ho incontrato un signore polacco, Giorgio, i cui problemi, dal lavoro ad un posto tranquillo in cui dormire, hanno creato in me un senso di frustrazione e impotenza tale che ho dovuto allontanarmi per un momento».
Il progetto Staffette Solidali è stato raccontato anche attraverso una mostra fotografica (ora le immagini sono esposte nel cortile centrale del Làbas) coordinata da Margherita Caprilli, fotografa di mestiere, «perché – spiega – non è un progetto a cui ci si può approcciare facendo foto a livello amatoriale. Sono specializzata in fotografia documentaria, di cui la fotografia sociale è una branca».
La sua, dunque, è prima una ricerca umana e poi fotografica, dove bisogna creare un distacco ma si avvertono le emozioni di ciò che si fotografa, tiene a precisare Margherita. «Seguivo questo progetto fin da quando erano ‘soltanto’ staffette alimentari partigiane, iniziate nell’estate del 2020. Poi ho continuato a seguire il loro processo evolutivo, e a settembre scorso mi hanno chiesto, in vista di dicembre, se volessi seguire il progetto delle staffette solidali».
Da qui inizia l’ideazione del progetto, delle modalità del racconto all’esterno attraverso un corso di formazione collettivo: era importante decidere insieme come approcciarsi alle persone, perché a partire da quello sarebbero nate le fotografie e quindi la percezione del fenomeno. «Volevo realizzare un reportage per far conoscere le staffette solidali a livello nazionale ed internazionale. Parallelamente, la nostra intenzione era formare altre persone su questo tipo di fotografia e fare un percorso che potesse avere come output una mostra, come poi è successo poi con Matteo e Sukeyna. A loro ho raccontato le mie esperienze passate e in seguito li ho portati in esterna, prima uno alla volta poi insieme, cercando di far capire, in base alla delicatezza del momento, quando bisognava osservare e basta, senza scattare».
In quattro mesi di formazione, dopo tanto tempo dedicato alle persone, c’è stata un’accettazione da parte delle persone che volevano aiutare, le quali hanno visto la costanza nella presenza dei volontari e non hanno avuto problemi a farsi fotografare. «Come un signore di una cinquantina d’anni – racconta Margherita –, dei quali cinque passati in strada. Di lui mi ha colpito, dopo la timidezza iniziale, la sua progressiva apertura nei nostri confronti. Col passare del tempo notavamo che c’era un senso di sollievo quando ci vedeva arrivare. La nostra non è mai stata una ricerca di gloria, ma la necessità di raccontare, e il suo è uno dei ritratti più belli».
Poi c’è Ivo, da più di dieci anni in strada. Ha viaggiato a lungo e ora è inserito nella comunità del quartiere Saragozza, in cui vive da diverso tempo. Non aveva grosse necessità, perché riceve tante attenzioni dai residenti. «Una volta – prosegue la fotografa – eravamo con lui e ci cantava Vasco Rossi, poi è passata una signora che gli portava regolarmente la cena e ci ha raccontato un po’ di cose sul suo conto e sulla loro esperienza insieme».
Margherita spiega che a volte la strada non è solo una condizione di vita, ma una scelta: «Tanti di loro non vogliono andare in dormitorio per paura di essere derubati o disturbati. Quindi preferiscono rimanere sulla strada, che considerano un ambiente più sicuro. Le loro coperte raccontano il loro mondo circostante, i loro ricordi. Ivo ci ha mostrato il suo cappotto e delle medaglie che testimoniavano tutti i chilometri percorsi fin qui».
Le staffette non sono certo degli eroi, non possiedono superpoteri, ma una sola, grande capacità: l’ascolto. «La cosa straordinaria – conclude Margherita – è stata la capacità delle staffette di costruire un dialogo, esserci con discrezione e avere la giusta sensibilità».
Giuseppe Mugnano
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Foto: Margherita Caprilli