“Non serve essere attori per fare teatro”. La lezione di Tommaso Bianco, da Napoli a Bologna sulle orme di Eduardo
«Ma allora per cosa combattiamo?», chiese Winston Churchill, Primo ministro britannico durante la Seconda guerra mondiale, quando gli proposero di tagliare i fondi destinati all’arte per sostenere lo sforzo bellico. Ottant’anni dopo, la storia si ripropone, con un nemico altrettanto infido e altresì invisibile, che miete vittime senza colpo ferire. La nostra guerra dura da un anno e di vittime ne ha fatte tante, oltre ad un numero non quantificato di caduti tra chi ha sempre creato bellezza. Sono i lavoratori del mondo dello spettacolo, messi in ginocchio da una crisi senza precedenti. Da oltre un anno è calato il sipario, i microfoni si sono spenti, gli stadi si sono svuotati.
Eppure, quando le luci si spengono, rimane sempre qualcuno a cantare, a ballare, a sognare. Chi non si arrende e spera che il futuro riparta domani, chi tiene il lumino della speranza sempre acceso e cammina nella sua luce fioca. Tommaso Bianco, attore napoletano trapiantato a Bologna, è uno dei custodi di quel bagliore. Un’artista cresciuto a pane e teatro, al fianco del grande maestro Eduardo De Filippo.
«Sostengo di essere un attore di Eduardo per darmi un’identità, ma l’attore di per sé è un essere libero, legato ad un percorso di vita che non è riferito ad un solo maestro ma a tante esperienze: come si cresce nella vita, così si cresce nel teatro. Io sono la sintesi di tutte le esperienze che ho fatto». E nel corso del sua carriera lunga mezzo secolo, Tommaso si è distaccato per ben due volte da Eduardo, scegliendo una propria individualità. «Avevo venticinque anni quando salii per la prima volta sul palcoscenico con lui, era il 1968 e il teatro italiano viveva uno dei suoi periodi di massimo splendore, in cui la compagnia partenopea recitava una ruolo da protagonista assoluto. In sei stagioni abbiamo girato il mondo, poi ho deciso di correre da solo e mi sono lanciato nel cinema e nella televisione».
I migliori cinefili non possono non conoscere le pellicole La mortadella, Il marchese del Grillo e Parenti serpenti (dirette da Mario Monicelli tra 1971 e il 1992), in cui Bianco ha recitato via via ruoli sempre più importanti; poi ancora, Il viaggio di Capitan Fracassa di Ettore Scola (1990, e corre un brivido lungo la schiena pensando a Massimo Troisi) e Così parlo Bellavista di Luciano De Crescenzo (1992), fino ai più recenti Pinocchio di Roberto Benigni (2002) e Si accettano miracoli (2015) di Alessandro Siani. In mezzo tanta televisione (con la partecipazione a due serie di successo di ieri e di oggi come La piovra e L’ispettore Coliandro) ma soprattutto tanto teatro, da Eduardo fino a Massimo Ranieri, che ne ha riproposto i grandi successi negli ultimi anni.
Tommaso ha vissuto sulla sua pelle le mutazioni della sua arte, che nel corso degli ultimi decenni ha messo da parte le maschere, incentrando le messe in scena su soggetti più veritieri, più vicini al vissuto quotidiano degli spettatori. «Eppure la nostra maschera di Pulcinella ce la portiamo dentro – spiega Bianco –, rappresenta uno spaccato umano straordinario: come lo stesso Eduardo ebbe a dire in uno special che facemmo per la Rai insieme a Franco Zeffirelli, Pulcinella non raffigura il carattere di un uomo, ma dell’uomo: un panorama di sentimenti che racchiude l’umanità intera tra vizi e virtù». E lui se la sentiva addosso, tenendo giù la maschera.
«Sono nato col teatro in testa, le mie sofferenze giovanili mi hanno portato a rompere la campana di vetro in cui mi sentivo rinchiuso. Non è stata una scuola ad insegnarmi a fare il teatro, nessuna scuola può farlo: nasciamo attori, ognuno di noi recita nella vita. Il mestiere poi si impara facendo pratica, non solo ascoltando. È per questo motivo che alla fine del mio percorso ho deciso di creare, insieme a mia moglie Cristina Passaro con cui recito da venticinque anni, una scuola di teatro qui a Bologna».
La nostra conversazione si interrompe all’improvviso, le luci all’interno del suo teatrino si spengono, e accade qualcosa che non è possibile esprimere a parole…
«Dove credi di essere ora? Sei in un teatro! Sipario!», grida aprendo la tenda. Dieci secondi di pura poesia, che bastano a esprimere la potenza di un palcoscenico, seppur di pochi metri, in un locale qualunque del centro di Bologna (in una parallela di via Irnerio): la Scuola-teatro Raffaele Viviani.
«A Bologna ho continuato a proporre le mie idee, talvolta adattandole al linguaggio emiliano. Ma i sentimenti sono universali, sono sempre in simbiosi con chiunque abbia lavorato», continua Bianco. È stato quindi lui a portare gli attori bolognesi nel suo modo di fare teatro, non viceversa.
Napoli ha portato la sua arte in giro per il mondo, non si può pensare di parlare di teatro o musica senza conoscere la scuola. «Oggi l’ambientazione napoletana è al centro del racconto televisivo e cinematografico: quel che piace è la vivacità, la complessità di umori e situazioni che rappresentano l’epicentro del mondo; la divisione tra il bene e il male».
Gomorra è l’esempio più immediato: è la perifrasi perfetta di un mondo in cui la brama di potere ha creato un cortocircuito al quale chi osa opporsi viene incenerito. I personaggi disegnati da Roberto Saviano sono verosimili, ma alla stesso tempo rappresentano delle maschere, così come le intendeva Luigi Pirandello, autore che più di ogni altro ha saputo raccontare la verità dell’uomo.
In questa verità crede Tommaso Bianco, che sostiene la necessità di fare teatro a scuola: «La vita ci forma, il teatro ci modella». Sipario.
Giuseppe Mugnano
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Foto: Tommaso Bianco