Rodolfo Minelli, un Cavaliere mai schiavo del potere. Amico del popolo, nemico degli oppressori fascisti (atto II)
Il Cavalier Rodolfo Minelli non fu soltanto il presidente del Bologna Football Club dal 1912 al 1919, intervallati da una pausa durante la Prima guerra mondiale, ma molto, molto di più. Come dicevamo, era un uomo facoltoso, diventato ricco grazie all’unione, avvenuta nel novembre del 1900, con una ricca ereditiera bolognese, Germana Draghetti, da cui ebbe in dono una cospicua dote e ben quattro figli, ma soprattutto grazie al suo instancabile fiuto per gli affari.
Giovanissimo, iniziò a battere tutti i laboratori e le industrie alimentari vendendo ciliegie sotto spirito che produceva in un suo magazzino: «Ne faceva a migliaia – racconta suo nipote Adriano – per poi venderle alle fabbriche dolciarie e a pasticcieri: il suo mercato di riferimento era Milano, dove le aziende pagavano in contanti le sue damigiane di amarene. Tappa fissa sotto la Madonnina ero lo stabilimento della Ramazzotti, all’epoca in via Canonica. Fu a loro che presentò una nuova bottiglia, poi da rivendere a terzi». Un’occasione che gli scaltri milanesi non si fecero scappare, vendendo il nuovo liquore di Minelli, già imbottigliate, in Lombardia e Piemonte con un buon successo. E indovinate di che colore era la bottiglia? Rosso e blu, fatta da un grafico bolognese su suo consiglio. Erano i primi anni Venti e una legge del nuovo regime fascista proibiva la vendita di liquori in damigiana. Era l’inizio di un periodo buio, ma non per un uomo che conosceva soltanto soluzioni dei problemi. E così insegnò ai suoi giovani figli Francesco e Adamo, a cui diede mandato di vendere liquori in giro per la Regione, mentre al secondogenito Giuseppe affidò un altro suo business, la stagionatura e la vendita (in via Drapperie) di formaggi e prosciutti. Altro che semplice rappresentante di liquori.
Se pensate che Rodolfo Minelli fosse solo uno commerciante con la passione per il football, state cadendo ancora una volta in errore. Quando aveva da poco inaugurato lo Stadio Sterlino, nel 1915 fu chiamato al fronte col grado di Caporal maggiore. Rispose naturalmente alla chiamata alle armi, ma venne congedato poco dopo per ricoprire un altro incarico: responsabile ai lavori di disboscamento – per cui vinse regolare appalto – delle colline intorno a Monghidoro, località dell’hinterland bolognese in cui si trasferì con tutta la famiglia, lasciando la presidenza onoraria della squadra rossoblù ad Arturo Gazzoni. Anche quell’esperienza fu un successo, elogiato dal sindaco in una cerimonia ufficiale in qualità di benefattore verso i ceti meno abbienti e i reduci di guerra, per i quali aprì anche dei libretti di risparmio.
Tornato a Bologna dopo il Primo conflitto mondiale, riprese le redini del club ma soltanto per un anno. Era forse in cerca di una nuova stabilità, motivo per il quale girovagò per circa un anno in varie residenze nobiliari prima di stabilirsi a Palazzo Fantuzzi, in pieno centro. Nel 1919 dichiarò quindi terminata l’esperienza da presidente del Bologna, lasciando il timone a Cesare Medica (che proseguì sulla scia del suo predecessore il percorso di crescita del club reclutando il primo coach Hermann Felsner), dedicandosi anima e corpo alla sua attività imprenditoriale.
Tuttavia, la sua passione per lo sport non scemò affatto, e continuò a sostenere gli atleti cittadini in altra maniera, ovvero nella nuova veste di editore del periodico La Pedata, che iniziò a stampare a sue spese (e con l’aiuto dei vecchi amici Ramazzotti). Per far ciò si circondò di diverse firme di prestigio, che disquisivano di sport a 360 gradi e non mancavano di polemizzare contro un sistema troppo ancorato ad antichi principi e poco inclini al progresso. Fu una rivista sempre anticonformista, come recitava un sottotitolo: «Esce quando esce». E difatti, tale capolavoro di ironia e sagacia (era zeppo di caricature e disegni), veniva editato irregolarmente quando si riteneva ci fosse qualcosa di importante da scrivere.
Una delle poche copie sopravvissute è datata 1927, l’anno dell’inaugurazione dello Stadio Littoriale, che vide la presenza di Benito Mussolini e una cerimonia in pompa magna. Il Cavalier Minelli non perse l’occasione per una nuova pubblicazione della sua rivista, con una copertina riccamente disegnata. Ciò che ad un primo sguardo sembrano essere disegni di vario genere, in realtà era pura satira contro il regime: i fioretti incrociati in segno di sfida, un omino che prende a calci delle uova (forse una metafora della Pasqua tanto cara ai cattolici fascisti?), un treno sui cui vagoni si esalta il Bologna e la figura di Minelli, ma soprattutto colpisce il disegno in alto a destra. Un omone (lui, alto più di un metro e 80 centimetri) impettito come un gerarca e di fianco la scritta: «Qui lavoro io». Vale a dire – concedetemi l’espressione colorita – «fuori dai maroni!». A sottolineare il concetto, alcuni versi liberamente ispirati all’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto: «Emulo ormai di Orlando e di Baiardo – Volgo all’intorno minaccioso il guardo – E pien di fede ardente e di passione – Osfido tutti a singolar tenzone: Forte di braccio e pronto di pensier – Son Minelli Rofoldo il Cavalier». Non credo sia necessario spiegare che reazione potesse aver scatenato nelle stanze del potere la provocazione di Rodolfo Minelli, insensibile al fascino della camicia nera, per usare un eufemismo.
Queste poco velate frecciate al regime proseguirono negli anni a seguire, senza che gli venisse torto un capello, visto lo spessore e la popolarità del personaggio. Ma se ti fai nemici simili, devi stare ben attento a non commettere passi falsi, come purtroppo accadde alla famiglia Minelli nel 1937. L’attività di famiglia viaggiava a pieno ritmo, quando un giorno (non si conosce ancora la data precisa) il padre di Minelli, Giuseppe, fu convocato in questura per un’irregolarità legata ad un suo dipendente minorenne non registrato regolarmente. Si presentò però Rodolfo, forte delle sue ragioni di buon imprenditore, a dirimere la questione. Ne scaturì – secondo quanto raccontato oggi da suo nipote Adriano – un interrogatorio che si protrasse per diverse ore, fino a che il Cavaliere, esasperato dalle domande dei poliziotti, chiese che cosa volessero per lasciarlo andare. «La sua iscrizione al Partito Nazionale Fascista», risposero. Seppur controvoglia, acconsentì pur di essere rilasciato. Il giorno successivo i giornali titolarono: «Rodolfo Minelli radiato dal Partito Fascista». In sostanza, lo dichiararono nemico pubblico. Spaventati, quelli che fino a giorno prima lo avevano osannato, gli tolsero persino il saluto, intimoriti. Fu un’onta inaccettabile per un uomo dalla schiena dritta qual era, si chiuse in casa e ne uscì solo grazie all’intervento dell’unico amico fedele, tale ingegnere Gamberini. Il dispiacere però era stato troppo grande: pochi mesi dopo, l’11 febbraio 1938, a soli 61 anni, Rodolfo ebbe un infarto. Rientrato in casa, si spense nella notte. Oggi il Cavalier Minelli riposa in Certosa, circondato dai grandi della nostra città. L’ultimo omaggio ad un grande uomo.
Giuseppe Mugnano
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