‘Tombolino’, ‘I Tupamaros’ e il biliardino: l’eccezionale normalità di Lucio Dalla
Settantotto, gli anni che avrebbe compiuto ieri, perché di persone come Lucio Dalla non si può celebrare la scomparsa, ma soltanto la vita. Strepitosa, eclettica, roboante, sempre in corsa. Di lui si è detto e scritto tanto, ne hanno parlato forse in troppi, molte volte per sentito dire, senza aver neppure sfiorato la scia della sua stella. Molti lo hanno venerato negli anni della sua assenza, e come biasimarli. Era quel che raccontava in uno dei suoi numerosi successi: una persona eccezionale nella sua normalità. Vicino ai deboli, in mezzo ai potenti, ma con distacco. Sarebbe ridondante – e credo anche presuntuoso – parlare della sua musica, che in questi giorni risuona in ogni angolo della città, perciò ritengo opportuno approfondire una delle sue mille sfaccettature: il Lucio appassionato di sport, che praticava e seguiva fin dall’infanzia, attraverso alcune delle voci di chi lo ha vissuto davvero.
«Lo chiamavano ‘tombolino’ – racconta un vecchio amico, custode di molti dei suoi ricordi più preziosi – perché da ragazzino giocava a basket ma a modo suo, tirando la palla con due mani seppur con grande precisione e forza, a discapito della sua stazza. Una volta al Palazzo dello Sport, naturalmente ad una partita della sua Virtus, lo invitarono a venire al centro del campo per una sfida ai tiri da tre punti: ne mise dentro tre su tre, fra lo stupore generale». Del resto, le foto di Lucio in quel di piazza Azzarita le conoscono in molti. E lui seguiva spesso le V nere anche in trasferta, programmando avventure in macchina con i suoi compagni di brigata.
E poi c’era il Bologna, la squadra che faceva penare un’intera città infrangendo ogni anno il sogno di rivalsa, dopo quel mitico 1964. E ne aveva sicuramente gioito anche lui all’epoca, baldanzoso ventenne. Per cinquant’anni ha frequentato lo stadio, assieme agli amici Gianni Morandi, Luca Carboni e Andrea Mingardi, che ricorda gli attimi prima e dopo ogni partita, in casa e fuori, con Lucio sempre pronto a intavolare un’accesa conversazione sotto i portici: «Abbiamo cantato insieme Le tue ali Bologna, accompagnati da Morandi e Carboni. Un regalo, una vera gioia. E poi come posso dimenticare cinquant’anni di calcio e basket visti insieme, di tante chiacchiere di vita e da bar?», scrive il cantautore sul suo diario di Facebook, proseguendo così: «Era un uomo di musica, d’arte, di fantasia e di sport, da incontrare nel centro di Bologna, entrare in un caffè e discutere animatamente su come mai in una prossima vita non avremmo mai più visto uno scudetto a Bologna. Nove anni. Mi spaventa… Mi sembra ieri che ci si incontrava davanti all’ingresso dei cinema, del Dall’Ara o del Palazzo dello Sport».
Lucio viveva Bologna in ogni suo anfratto, grillo mattutino e lupo notturno, come cantava nella sua Dark Bologna. Era consuetudine incrociarlo tra le vie del centro, senza nemmeno fermarlo. Era lui che scopriva gli altri, si interessava di tutto e di tutti, indomabilmente curioso. Le note davano il ritmo al suo incessante bisogno di vita. Le sue serate tra osterie e bar sono immortalate in giro per i locali di Bologna, molti gli hanno dedicato uno spazio in vetrina cristallizzando un pezzo di lui. Uno su tutti, Vito, la trattoria della Cirenaica dove bazzicava Francesco Guccini attraversando la strada della sua via Paolo Fabbri e trovandovi spesso il collega. «Le serate passate a suonare insieme – ha recentemente scritto il cantautore emiliano – sono meno di quelle che si immaginano». Per lo più si osservavano per poi trovarsi di fianco per condividere qualche nota improvvisata. Lui in Regnoli aveva una zia e in Musolesi ci andava ogni sera. Addirittura, si vocifera che tra le vie del quartiere abbia attizzato l’orecchio alla storia di Anna e Marco: in anni recenti, infatti, è stato girato un videoclip al Bar Edera di via Masia.
Sul muro dell’osteria Vito, oggi gestita da suo figlio Paolo, Dalla è in ogni veste, dal cantante allo sportivo, fieramente al centro in una foto di squadra di uno dei tanti tornei amatoriali di calcio che amava organizzare. «Si andava a Gaibola, sulla colline bolognesi, coi soliti amici – prosegue nel racconto l’amico di sempre –, e lui chiamava le sue squadre ‘I Tupamaros’ o ‘I Sodomiti’». Quelle scorribande giovanili, per poi scontrarsi sette contro sette, furono d’ispirazione per il titolo del suo secondo album, Terre di Gaibola, pubblicato nel 1970.
Ma Lucio non si limitava agli sport tradizionali. In gioventù praticava discipline singolari con grande maestria e se ne faceva vanto. Come il biliardino, «di cui era campione indiscusso in ogni bar in cui metteva piede», poi un singolare gioco con le monete per testare i riflessi (che a quanto pare aveva prontissimi), e perfino le gare di sputo, come testimonia il nome ancora presente sul suo campanello nella sua dimora di via d’Azeglio e quello della sua barca ormeggiata ogni anno alle isole Tremiti, Catarro.
E ancora, il nuoto. Amava il mare, quel mare che ha ispirato le sue melodie più belle, i canti che solo a pensarci iniziano a risuonar le note di Caruso, Stella di mare, Come è profondo il mare.
Infine, il suo sport più bello: l’umanità. «Veniva nella mia bottega fin da piccolo con sua madre – racconta la sua amica Sandra Zinelli (di cui vi parlerò meglio in una delle prossime puntate di Saltatempo) –, che qui comprava le stoffe per i suoi vestiti. Da grande, ogni anno pagava la cena ai bisognosi invitandoli alla pizzeria Napoleone. Era un uomo dalla grande generosità: ha fatto molto di più di quel che hanno raccontato di lui».
A pensarci adesso, Lucio, con la povertà d’animo in cui ci ritroviamo, ci stai mancando un casino.
Giuseppe Mugnano
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Foto: Trattoria Da Vito – Sandra Zinelli