Una figurina forever per Carlo Montanari, il primo d.s. d’Italia
Ogni appassionato che si rispetti ha cercato almeno una volta di accaparrarsi la figurina del proprio beniamino, provando a scambiare i doppioni coi suoi amici. Completare poi il mitico album Panini era impresa per pochi. Un rito pagano che si ripete da oltre sessant’anni, e non solo tra bambini. Grazie all’associazione Figurine Forever, da cinque anni questa pratica si è arricchita ulteriormente, dando vita a figurine iconiche dei grandi personaggi dello sport: calciatori ma anche atleti di altre discipline, allenatori e perfino dirigenti sportivi, come nel caso di Carlo Montanari. Martedì pomeriggio a Bologna, all’interno di un evento organizzato nello studio del noto avvocato Mattia Grassani dall’A.Di.Se. (Associazione Italiana Direttori Sportivi, di cui Montanari fu il primo presidente negli anni Settanta, oggi presieduta da Beppe Marotta e Rocco Galasso), allo storico d.s. è stato dedicata una figurina ad hoc, consegnata nelle mani di suo figlio Marco, celebre giornalista sportivo.
«Se fosse qui oggi – ha commentato Marco Montanari – mio padre fingerebbe di non gradire affatto questo riconoscimento, ma dentro di sé ne andrebbe molto fiero. Chi lo conosceva, sapeva del tuo carattere un po’ duro, era un vero orso. Professionalmente però è stato un pioniere nel suo mestiere, il primo direttore sportivo d’Italia, in un calcio dove questo ruolo risultava essere determinante, a differenza dei nostri giorni dove i procuratori fanno la voce grossa e spesso indirizzano le trattative, nel bene e nel male».
Carlo Montanari, forlivese di nascita, iniziò la sua carriera dirigenziale nei primi anni Sessanta al Milan, ponendo le basi della storica formazione che nel 1969 conquistò poi la sua prima Coppa dei Campioni con Nereo Rocco in panchina. A causa di alcune frizioni col precedente allenatore Gipo Viani, decise però di cambiare aria ben prima di quel successo, accasandosi al Bologna di Renato Dall’Ara. Stesso percorso anche in questo caso: Montanari iniziò a formare il gruppo che in seguito vinse lo scudetto del 1964, portando sotto le Due Torri mister Fulvio Bernardini, senza però avere l’opportunità di godere dei frutti del suo lavoro. Vi riuscì qualche anno più tardi alla Fiorentina, con la quale conquistò il secondo tricolore della storia viola sotto la sapiente gestione tecnica di Bruno Pesaola.
Dopo la raggiante parentesi toscana, Montanari continuò a girare l’Italia e la Serie A a caccia di talenti e grandi progetti, tornando in altre due occasioni al BFC, nel frattempo passato nelle mani di Luciano Conti dopo la tragica scomparsa di Dall’Ara, a cui è legato uno storico aneddoto di calciomercato che suo figlio Marco ha condiviso con una malcelata amarezza.
«Quando mio padre tornò al Bologna, la squadra navigava in brutte acque e il presidente gli chiese come poter mettervi riparo. Naturalmente le cessioni erano l’unico modo per tamponare la crisi, e il calciatore che avrebbe fruttato il maggior introito era Beppe Savoldi. Così venne messo sul mercato: qualche ora dopo arrivò una chiamata da Giampiero Boniperti della Juventus, che chiese la cortesia di non cedere l’attaccante alle dirette concorrenti dei bianconeri, ovvero il Milan e l’Inter. Desiderio esaudito, perché arrivò il Napoli del magnate Achille Lauro e lo prelevò per l’astronomica cifra di due miliardi di lire».
L’affare fu agevolato dalla conoscenza tra il dirigente romagnolo e il presidente degli azzurri. Proprio sul golfo di Partenope, infatti, Montanari aveva vissuto un’altra esaltante stagione nel 1968-1969, con l’arrivo dei due assi Omar Sivori e José Altafini, che trascinarono la squadra ad un insperato secondo posto alle spalle del Milan. In panchina c’era, ancora una volta compagno di ventura, Bruno Pesaola, che del Napoli è stato una vera e propria leggenda, sia da giocatore che da allenatore.
«Quell’anno trascorso a Napoli fu per me una grande avventura che non avrei mai voluto interrompere – racconta ancora Marco –. Avevo appena otto anni e conservo delle splendide memorie che porto ancora con me. Fortunatamente, grazie a mio padre ne avrei vissute tantissime altre, sempre legate al mondo del calcio, di cui sono rimasto inevitabilmente innamorato e a cui ho dedicato tutta la mia carriera in oltre quarant’anni da giornalista sportivo. È stato un grande professionista con un notevole fiuto per il talento, un simbolo del calcio italiano, che giustamente oggi viene omaggiato e da cui molti oggi avrebbero da imparare». Intanto, da oggi possiamo attaccarlo, non più solo metaforicamente, sull’album dei ricordi.
Giuseppe Mugnano
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