Chi ha ancora voglia di parlare di calcio nella congiuntura storica che più di ogni altra sconsiglierebbe di farlo, può accomodarsi nelle numerose pagine offerte gratuitamente da questo sito. Qui prendo invece altri due minuti di libertà per confessare il fastidio pungente che ho provato prima, durante e dopo Bologna-Atalanta e, più in generale, prima, durante e dopo alcune partite adocchiate in TV negli ultimi giorni. Mi chiedo cosa stia facendo il calcio italiano (come sistema, ma anche come somma di singoli club) per sintonizzarsi sul più grave problema economico-sociale-umanitario che imperversa nel mondo dai tempi dell’invasione tedesca in Polonia. La risposta? Nulla.
Se la reazione del calcio è tutta in un fugace lampeggìo No war sullo schermo dello stadio (dove No war è espressione quantomai equivocabile, visto che la guerra la stanno facendo anche i martiri ucraini assaliti dall’orda russa, e nessuno di sani principi si sognerebbe di chiedere No war proprio a loro), mi chiedo allora che destino possa avere questo sport in perenne fuga dalla realtà e dunque da sé stesso. Lo stesso sport, del resto, che ormai dubita di tutto e che sente la necessità di rivedere dieci volte la stessa azione prima di decidere della sua regolarità. Con quale credibilità si organizza e si tiene in piedi una macchina socio-economica così ingombrante come il calcio, se poi di fronte all’emergenza assoluta, lancinante e impellente di un conflitto dentro e contro l’Europa non si sa partorire null’altro che No war, slogan che più avaro e capzioso non può esistere in questo momento storico?
L’alleato più potente di Putin, dopo 25 giorni di combattimenti, sta diventando infatti l’assuefazione, ovvero la tendenza a derubricare la guerra contro i nostri fratelli a semplice bollettino quotidiano. Se il calcio, che (forse) è ancora il promemoria collettivo del nostro vivere insieme, si rifiuta di indossare colori, messaggi e atteggiamenti chiari in questa partita epocale, allora può tranquillamente tornare a chiudersi in se stesso come l’epidemia di COVID lo obbligava a fare fino a pochi mesi fa. Chiedete agli inglesi cosa può fare il football, quando un club come il Chelsea viene messo di fatto sotto sequestro, col sodale di Putin impedito persino ad usare un volo charter. E chiediamoci quante coscienze non abbiamo smosso, nelle ultime settimane, sorvolando o balbettando frasi incerte sulla guerra come se fosse un argomento alieno a questo sport.
Io vorrei invece che ogni partita, finché guerra sarà, fosse introdotta da un minuto di riflessione, ma di quelli veri, magari riempito con le parole e la musica del bellissimo inno ucraino: «A noi, giovani fratelli, il destino sorriderà ancora. I nostri nemici scompariranno, come rugiada al sole, e anche noi, fratelli, regneremo nel nostro Paese libero». Quanto costa un minuto dedicato all’Ucraina? Quanto costa una vita consegnata al gelo dell’indifferenza?
Luca Baccolini
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