Ottant’anni fa l’uccisione di Arpad Weisz, l’allenatore di cui ogni tifoso del Bologna dovrebbe essere orgoglioso
Sette anni fa, quando si decise di cambiare nome alla Curva San Luca (o meglio: di intestarle finalmente un nome, poiché ‘San Luca’ era ed è solo denominazione d’abitudine), si alzò un venticello di polemica trasversale, che accomunò tifosi e persino parte della Curia bolognese. «Non si cambi il nome alla Curva San Luca», tuonò monsignor Vecchi, frattanto scomparso due anni fa, nientemeno che dal pulpito dei funerali di Ezio Pascutti. Il cambio in questione riguardava Arpad Weisz, di cui proprio oggi, 31 gennaio, ricorrono gli 80 anni precisi della morte nel campo di concentramento nazista di Auschwitz.
Confesso che anche io sono allergico alle ridenominazioni dei luoghi pubblici, soprattutto quando ci sottraggono nomi che sono sempre stati sulla nostra bocca. Poi però, in questi anni, ho avuto modo di approfondire la storia del Bologna. E la storia del Bologna passa in misura determinante proprio da Arpad Weisz, che fu addirittura capace di migliorare la già imbattibile macchina costruita da Hermann Felsner. L’epoca era quella dello strapotere juventino, cinque scudetti su cinque, una marcia mai vista in Italia fino ad allora.
Weisz si installò sulla panchina rossoblù nel gennaio 1935, ricostruendo l’identità di una squadra in crisi di risultati e portandola subito a vincere il campionato in meno di 18 mesi. Lo scudetto del 1935/36, quasi nessuno lo sottolinea, fu vinto con un organico di appena 14 giocatori, record impossibile da eguagliare nel logorante calcio odierno. Con quel titolo, Weisz divenne anche il primo allenatore in Italia a vincere il campionato con due club diversi (ci era già riuscito con l’Ambrosiana, diventando e restando a tutt’oggi il più giovane tecnico straniero ad aver mai trionfato in serie A). Migliorare era difficile, ma ci riuscì comunque. Il 1936/37 fu l’anno più glorioso della storia rossoblù: in poche settimane il Bologna si aggiudicò il secondo scudetto consecutivo e il Torneo dell’Esposizione di Parigi, una Champions League ante litteram vinta con un inappellabile 4-1 sul Chelsea che sancì il primo successo di una squadra italiana ai danni di un’inglese.
Weisz avrebbe vinto anche il terzo scudetto col BFC, il quarto personale, se a metà ottobre 1938 l’Italia non si fosse allineata alle vergognose leggi razziali. Vergognose per chi le promulgò, per chi le sostenne e per chi, ipocritamente, fece finta di non vederle. Quando Weisz fu allontanato dalla panchina, umiliato al punto di dover contrattare una modestissima buonuscita dopo tutti i trionfi ottenuti, sul giornale della città fu pubblicata la seguente breve: «Si apprende da fonte autorizzata che le superiori Gerarchie sportive hanno concesso il nulla osta per il mutamento nella direzione tecnica del Bologna. A sostituire Arpad Veisz, la cui permanenza nella nostra città datava da tre anni e mezzo, è stato chiamato il dottor Ermanno Felsner, il quale ritorna ad allenare la squadra rosso-blu dopo esserne stato il primo istruttore».
Non un cenno al vero motivo dell’allontanamento. L’allenatore che aveva portato più in alto di tutti il Bologna era semplicemente uscito di scena, sostituito dal ritorno di Hermann Felsner, il primo tecnico della storia rossoblù. La fine di Weisz è nota: emigrato in Francia e poi in Olanda, visse con la famiglia (la moglie Ilona, i figli Roberto e Clara) a Dordrecht, la stessa città dove per lunghi mesi era stato anche Van Gogh. Qui Arpad guidò con successo la piccola squadra locale, diventando un nuovo e acclamatissimo maestro di calcio. Poi arrivarono i nazisti, la stella gialla sul petto e i treni della morte.
Dovrebbe essere motivo di grande orgoglio che il Bologna abbia una storia simile da poter raccontare: tutti coloro che tifano BFC devono sapere di aver avuto sulla panchina e nel proprio stadio (anche se un tempo si chiamava Littoriale) il miglior allenatore europeo degli anni Trenta. Ecco perché l’intitolazione della curva San Luca ad Arpad Weisz è stata non solo opportuna, ma forse fin troppo tardiva.
Luca Baccolini
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