«Di pochi giorni or sono la notizia dell’assunzione di Filippo Pascucci, chiamato dal sodalizio bolognese a dirigere le squadre minori. Ma un’altra novità è da aggiungersi, e cioè la partenza del dott. Kovacs, il quale lascia Bologna dopo un anno o poco più di permanenza. I dirigenti del Bologna si sono preoccupati subito di sostituirlo con un altro allenatore di riconosciuta capacità e la scelta è caduta sul signor Veisz, il quale ha appartenuto fino all’anno scorso alla Ambrosiana e che attualmente ricopriva la carica di istruttore presso il Novara». Così nel 1935 Il Resto del Carlino annunciava il definitivo assetto della panchina rossoblù, che dall’addio di Hermann Felsner in poi, ovvero dal 12 gennaio 1931, era sempre stata sede provvisoria di molte e non tutte proficue avventure tecniche. L’idea di Renato Dall’Ara, diventato da pochi mesi presidente del club, non era diversa da quella che aveva animato Cesare Medica nel 1920 quando entrò in contatto con Felsner grazie ad un’inserzione su un quotidiano praghese: rivolgersi ad un allenatore di area danubiana per continuare la tradizione del grande calcio mitteleuropeo, la dottrina sportiva cui il Bologna aveva aderito fin dal primo dopoguerra.
Weisz, italianizzato in Veisz, era tutt’altro che uno sconosciuto: da calciatore si era segnalato come buona ala sinistra nell’Alessandria e nell’Inter, tappe conclusive di una carriera cominciata in Ungheria, anche al servizio del commissario tecnico della nazionale magiara Bela Guttman, futuro allenatore del Benfica nonché responsabile della celebre maledizione che avrebbe gravato sulla squadra portoghese fino ai giorni nostri. Chiusa anzitempo la parentesi agonistica per un grave infortunio, Arpad si dedicò immediatamente alla panchina. Fu un esordio fulminante, che rivelò subito alla platea italiana le doti di un allenatore visionario, già proiettato nel futuro. Non a caso scriverà il primo manuale completo sul gioco del calcio (in collaborazione con Aldo Molinari e Vittorio Pozzo). Con l’Inter, che all’epoca era stata italianizzata col più autarchico nome di Ambrosiana, vinse il primo campionato a girone unico del 1929/30, diventando così, a soli 34 anni, il più giovane allenatore straniero ad aver mai trionfato in Serie A. Come ci riuscì? Weisz, che a quel tempo fu tra i primi trainer a partecipare attivamente agli allenamenti in maglietta e pantaloncini, mischiandosi ai calciatori, considerava l’attività dell’atleta nella sua globalità e quella dell’allenatore come un lavoro ad alto contenuto scientifico. Cominciò a prescrivere diete adeguate, diffuse l’usanza di andare in ritiro per preparare meglio le partite, s’interessò al lavoro del settore giovanile, promuovendo una serrata ricerca di nuovi talenti (all’Inter procurò un giovane ragazzo destinato a diventare il simbolo del calcio italiano, Giuseppe Meazza).
Quando sbarcò a Bologna, insomma, si capì subito che il suo non sarebbe stato un incarico ad interim. Rispetto a Felsner, che arrivava direttamente da Vienna, Weisz non ebbe nemmeno bisogno di un lungo periodo di ambientamento. L’epoca era quella dello strapotere juventino (la squadra del ‘quinquennio’, con cinque scudetti consecutivi), alla quale pose fine già nel campionato 1935/36 vincendo lo scudetto con un BFC il cui organico era di appena 14 giocatori, record a tutt’oggi ancora imbattuto e ormai impossibile da eguagliare. Con quel titolo, divenne anche il primo allenatore in Italia a vincere il campionato con due squadre diverse. Migliorare era difficile, ma ci riuscì ugualmente. Il 1936/37 fu l’anno più glorioso dell’intera storia rossoblù: in poche settimane, la squadra di Weisz si aggiudicò il secondo tricolore consecutivo (il quarto in totale) e il Trofeo dell’Esposizione di Parigi, un torneo che anticipò di molti anni la futura Champions League e che sancì, con l’inappellabile 4-1 sul Chelsea, la prima vittoria di una squadra italiana ai danni di una compagine inglese.
Tutto cambiò improvvisamente nel 1938. Per un’atroce coincidenza, la prima giornata del suo ultimo campionato italiano, il 18 settembre 1938, fu programmata nel giorno in cui Benito Mussolini annunciò l’introduzione delle leggi razziali. Mentre Weisz sconfiggeva il Genoa fuori casa, gli altoparlanti delle piazze italiane riecheggiavano le lugubri parole che avrebbero portato a morte, diretta o indiretta, migliaia di persone in tutta Italia: «Nei riguardi della politica interna, il problema di più scottante attualità è quello della razza. La storia ci insegna che gli imperi si conquistano con le armi ma si tengono con il prestigio, e il prestigio si conserva con una chiara e severa coscienza razziale che stabilisca non soltanto delle differenze ma delle superiorità nettissime». Queste le parole che da quel giorno segnarono per sempre la vita di Arpad, della moglie Elena e dei due figli, Roberto e Clara.
Con il libro Dallo scudetto ad Auschwitz il giornalista Matteo Marani ricostruì dettagliatamente gli ultimi anni della famiglia di Arpad Weisz, uno degli allenatori di maggior successo della Serie A degli anni Trenta e di ogni tempo. Ma il merito di quel lavoro non fu solo quello di restituire dignità storica a una vicenda sommersa, che rischiava di rimanere nell’oblio. La domanda di Marani, oggi come allora, riecheggia e sgomenta sempre: com’è possibile che uno degli allenatori più in vista sia sparito dalla circolazione senza che nessuno se ne accorgesse? Dallo scudetto ad Auschwitz diventa ora un reading con gli attori della compagnia Menoventi (Consuelo Battiston e Leonardo Bianconi). La loro lettura itinerante, condensata in un’ora di spettacolo, è cominciata martedì mattina nel palazzo della Regione Emilia-Romagna e approderà in varie città della Romagna (Galeata, Poggio Torriana, Rocca San Casciano, Faenza e Ravenna) a beneficio di un pubblico di adulti e ragazzi.
Un reading, all’apparenza. In realtà qualcosa di più. Gianni Farina, il regista, non si è infatti accontentato di ridurre il libro di Matteo Marani, ma ci ha aggiunto in sottofondo i suoni e i rumori che avrebbero potuto accompagnare la vita di Weisz, una sorta di ‘assedio sonoro’ per immergerci completamente in quel mondo. Cori da stadio, discorsi di Mussolini, partite di calcio, le strade di Bologna, Parigi e Dordrecht (l’ultima città olandese in cui trovò rifugio): è un panorama sonoro che rende ancora più concreta quella vicenda, anche senza ricorrere alle immagini. Lo spettacolo era apparso un anno fa a Castel Maggiore (città in cui lo stadio comunale è intitolato a Clara, figlia di Arpad). Oggi riprende il suo cammino per dare a tutti, ragazzi compresi, nuovi strumenti su quella vicenda nascosta per anni.
Quando le leggi razziali divennero effettive, Weisz aveva appena sei mesi di tempo per lasciare il Paese. L’allenatore del Bologna ne impiegò meno di quattro per organizzare la sua fuga. Dal 27 ottobre 1938, in ogni caso, non figurava più in organico alla società. Poche righe liquidarono il suo addio sui giornali: «Si apprende da fonte autorizzata che le superiori Gerarchie sportive hanno concesso il nulla osta per il mutamento nella direzione tecnica del Bologna. A sostituire Arpad Veisz, la cui permanenza nella nostra città datava da tre anni e mezzo, è stato chiamato il dottor Ermanno Felsner, il quale ritorna ad allenare la squadra rossoblù dopo esserne stato il primo istruttore». Ad attendere la famiglia Weisz c’era l’abisso della Storia. Il 10 gennaio 1939 cominciò la fuga verso Bardonecchia, al confine francese. Coi pochi soldi rimediati da Dall’Ara nella contrattazione sulla buonuscita, i quattro si diressero a Parigi, alternandosi tra alberghi e minuscoli appartamenti, e da qui fino ai Paesi Bassi, dove Arpad trovò lavoro nella piccola squadra di Dordrecht. Già al suo primo anno sulla panchina, l’allenatore dei miracoli riuscì a salvare il club dalla retrocessione vincendo lo spareggio decisivo contro l’Utrecht e piazzandosi poi quinto nel campionato successivo. Un eroe, per quel suo nuovo pubblico ancora poco avvezzo al calcio.
Dal maggio 1942 la situazione precipitò. I nazisti avviarono un massiccio rastrellamento in tutti i centri principali. Come gli era già capitato a Bologna, Weisz fu licenziato dalla società, i figli vennero obbligati nuovamente a lasciare la scuola e l’intera famiglia costretta a indossare la croce gialla sui vestiti per farsi riconoscere. Inutili gli sforzi della dirigenza del Dordrecht per aiutarli a fuggire un’altra volta. Il 2 agosto la Gestapo li aveva già arrestati e caricati su un vagone in direzione del campo di smistamento di Westerbork, da dove ogni martedì partiva un convoglio per Auschwitz, Bergen-Belsen o Sobibor. Tra i 107.000 prigionieri che passarono di lì, oltre alla famiglia Weisz, ci fu anche Anna Frank. Il 2 ottobre successivo partì il treno senza ritorno, quello per Auschwitz. Cinque giorni dopo i due figli e la moglie finirono dentro le camere a gas, all’insaputa di Arpad, che invece, assieme ad altri 300 uomini, fu trasferito a Cosel, in Polonia, per essere destinato ai lavori forzati. Il suo fisico da atleta lo preservò qualche mese in più rispetto ai compagni di prigionia. Ignorando la fine della sua famiglia, con cui non aveva più avuto contatti dall’ultima separazione, la sfinente quotidianità del campo di lavoro trascorse tra inimmaginabili sofferenze fino alla fine del 1943. Tradotto di nuovo ad Auschwitz, il 31 gennaio 1944 Weisz perse la vita. Nessuno, nemmeno a Bologna, ne chiese conto. A 47 anni se ne andava uno dei più grandi allenatori della storia del calcio e uno tra i più vincenti di quella rossoblù.
Luca Baccolini
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