D’Annunzio al Bar Igea – Racconto centraiolo in due puntate (1^ parte)
Comincio questo racconto ricordando un episodio all’apparenza strampalato, accaduto al tempo che mi ero avventurato a gestire il Bar Igea di via dell’Indipendenza, ove ne fabbricai anche di sontuose crêpes per i maledetti turisti anglo-scandinavi di prima della Lehman Brothers, e fino all’anno del Triplete, per la gloria degli interisti.
Adesso il Bar Igea è gestito da una brava famiglia di cinesi. I cinesi sono un popolo straordinario, ma non capirebbero un’acca di D’Annunzio, tanto per cominciare a mettere qualche cartello segnaletico attorno al titolo che mi sono prescelto. E sia detto questo a differenza dei giapponesi, come capiterà di far cenno più avanti.
Entra in scena un pomeriggio, dunque, a banco, e ordina un caffè, una ragazza all’aspetto nient’affatto comune. Non l’avevamo mai vista. Essa incedeva con la zampa dello struzzo, gli occhi enigmatici della belva, sotto capelli di riflesso azzurro. Altri particolari concomitanti è letterariamente efficace non tentare di descriverli, fidando sulla convinzione che, una volta dato l’input, essi balzerebbero più felicemente alla libera fantasia del lettore; e poco vale che, per i miei gusti personali, fosse un po’ troppo vistosa. Preso alla sprovvista e defilato in un tavolo d’angolo, quello che sarà il nostro protagonista resta come inutilizzato in panchina. Invece l’avventore Stanzani, bolognese di nome, e di fatto cliente stanziale, ha una reazione a dir poco stravagante: afferra la tazzina vuota lasciata sul banco dalla fugace apparizione e ne lecca con foga golosa la residua patina interna.
Presentarsi fuori contesto, è il peggio che ti possa capitare. Cosa c’entra D’annunzio in una testata di calcio e di basket? Ora, la pazienza è una virtù evangelica, altrettanto che sportiva. Tanto per cominciare, sono convinto che ognuno di voi coltivi un’idea del mito di D’Annunzio. Poi, vi dico che il protagonista della storia, nient’affatto estraneo alle vertigini del Vate, spirito avido di emozioni rare, fu atleta di football americano, e nella stagione eroica di questo sport a Bologna militava negli storici Doves. Di lui non faremo né il nome né il cognome, ma semplicemente useremo tra i suoi tanti nomignoli quello di Lucky, omettendo quelli che lui stesso s’intitola di ‘amoruccio’ e ‘tesoro’. Io non conoscevo questo gioco, omicida e matematico, finché Lucky, aedo di furori e d’amori, non ne poetò gli agonismi davanti a tredici bottiglie vuote di Raffo. Ed è al fine di accreditare in via definitiva la sua presenza su questo giornale, che farò la cronaca di due azioni, due azioni soltanto, di quelle in cui lui eccelse, tra il campo della Lunetta Gamberini e quello del Vigorelli di Milano.
C’è il derby tra i Warriors e i Doves. Ha inizio la partita con botte da orbi. Lucky gioca tackle nella squadra defense, la carne da macello. Siamo al quarto periodo. A pochi minuti dalla fine siamo ancora 0-0. I Warriors sono al quarto tentativo e ad una yard, circa un metro, per andare dentro. Lucky è di fianco al suo nose guard, detto The Hand, mai vista una mano così, l’uomo più forte che ci fosse in Europa, augusto Pantagruel fuori dal campo: duecentocinquanta chili in due. Il center avversario ‘snappa’ la palla al quarterback, che la passa dietro al fullback. I Warriors tentano il touchdown e non il field goal fidando sulla potenza del fullback americano. Lucky vede la disposizione della linea d’attacco: un doppio blocco con due giganti che vogliono portarlo via per aprire la strada al fullback. È questione di frazioni di secondo. Intuita l’azione lui non si mette tra i due mostri di centoventi chili l’uno, che possono spingerlo dietro la linea, mentre il fullback va dentro. Lui è il più piccolo, perciò si fa ancora più piccolo e s’infila basso più che può tra le gambe e sotto le ascelle del doppio blocco. I due si scontrano tra di loro e Lucky si alza al tentativo di rientro delle due guardie mentre il fullback arriva come un treno. Scontro frontale tremendo ma Lucky non si sposta di un centimetro. Tutto il resto della squadra, il backfield, addosso in un apocalittico mucchio. Lucky riemerge, finisce l’azione. La palla resta sua, yard difensiva. I Doves non perdono, 0-0 e pareggio.
Siamo a Milano contro i Rhinos pluricampioni. D’un tratto si annuvola e scurisce turbinosamente il cielo, presagio che qualcosa sta per accadere. Verso l’attimo fatale viene a piovere, viene a grandinare, viene a nevicare. Tutto in una volta. Probabilmente gli avversari sbagliano schema. Lucky ha la strada aperta e va dritto contro il quarterback per fare il sack. Il suo compito è fargli un placcaggio con dolore: si stava realizzando l’eventualità di uccidere qualcuno senza andare in galera. Anche qui è questione di frazioni di secondo. La palla è sulla mano destra del quarterback. Se fosse stato mancino era dalla parte di Lucky, che gli avrebbe dato sul braccio per fargli cadere la palla. Invece è destro, la palla è dall’altra parte. Mentre il quarterback alza il braccio per lanciare, Lucky gli molla di corsa un diretto sulla tempia corazzata. L’americano arretra di cinque yard, crolla e va in ospedale… La partita è vinta.
Nel periglioso tunnel, si prospetta l’eventualità di una resa dei conti. Ma no… gli avversari applaudono, sono ammirati: 0-21!
Ed è con queste plastiche azioni proiettate nei cieli, che Lucky prende possesso dell’Essere per il resto dei suoi giorni, nonché della pagina effimera di questo racconto.
Mentre, della sua tensione dannunziana, parleremo la prossima volta.
Bombo
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