Ecco che ci piace richiamare, come possiamo, quel discorso sul modo di essere detto dannunzianesimo che, al pari di altri fenomeni pur detti culturali, non si limita ad attecchire nella mente di intellettuali o di addetti ai lavori di un settore specifico, ma si ripresenta ovunque, e nella mente di ciascuno come la polvere pomice di un’esplosione vulcanica si diffonde su tutto un continente: è parso a me di riconoscerne la propaggine in tanti amabili vanesi tra i miei avventori.
Non fu così, per esempio, anche quanto accadde nel calcio mondiale dopo la rivoluzione olandese dei primi anni Settanta? Johan Cruijff non c’è più: eppure, dopo di lui, il calcio non fu più quello di prima, neanche per i ragazzini dei nostri vivai.
Per soffrire d’inconsapevole malattia dannunziana, basta evidenziare tre sintomi.
Bisogna vivere Il culto della bellezza e della vigoria fisica.
Bisogna vivere ogni momento sul filo dell’eccesso e del rischio.
Bisogna vivere il sesso e la donna in modo non semplicemente muscolare.
D’Annunzio era un soggetto che sapeva cesellare parole sulla pagina e incantare la gente nella piazza come nessuno nel suo tempo. Pilotava un aeroplano da combattimento quando non ti davano il paracadute. Aveva murato in giardino una nave da guerra e quando riceveva le aspiranti attrici nella sua casa sul lago, prima le faceva aspettare, poi si faceva annunciare: «Entra il poeta!», e si presentava in vestaglia orientale aperta e nudo di sotto, per quanto era piccolo, di statura.
Con la testa di D’Annunzio ragionarono un sacco di mostri sacri dell’arte e della scrittura dopo di lui. Vedi Hemingway, che passava le notti a limare la concisione delle frasi dei suoi romanzi, adorava il baseball, ammazzava gli elefanti, si procurava incidenti in continuazione, coca quanto D’Annunzio e ancora più Daiquiri cubano. Alla fine si sparò, quando non gli funzionava più.
E che dire di quel ministro della cultura di De Gaulle che risponde al nome di Malraux? Sempre in guerra, vuoi a cause giustissime, ma anche a rischiare la pelle nelle giungle d’Indocina per depredare reperti archeologici. Amava così tanto la bellezza che ha tentato per primo certe astuzie politiche per salvare gli ultimi scorci notevoli delle nostre città. Pare che alla fine abbia dato di matto per l’oppio di gioventù.
Un altro bel tipo così, il giapponese Yukio Mishima. Uno capace di perdere un sacco di tempo a trovare il nome più giusto per il profumo di un fiore, però girava per Tokyo con una katana del Seicento infilata alla cintura che faceva spavento. E, katana a due mani, alla fine convocò una conferenza stampa per dare degli infami a tutti quanti, esercito e governo, e per fargli dispetto si tagliò la pancia con due coltelli in diretta televisiva.
Questo tanto per citarne qualcuno di respiro mondiale e finiamola lì. E se non ci credete provate a rileggerli.
Lucky era nato nella fabulosa e popolare via Piella, la strada nobilitata dal Serraglio del Mille, al numero dove aveva dimorato anche Amba il biassanôt. Ivi, di fronte alla finestra famosa nel mondo, prima che scellerati comunali e geometri senza cuore ne ristrutturassero ignominiosamente le pareti e i ponticelli, finanche estirpando quel fico che caparbio aveva attecchito, nessuno sa come, nel muro vetusto del caseggiato di destra.
Qui dico egli crebbe fortissimo, compagno di cortili della nostra luminosa concittadina Eva Robin’s e degli ultimi centraioli, le misure di Tyson e il tono un po’ insolente per importanti libagioni di Marzemino. La curiosità su di lui mi stuzzicava a fare qualche verifica: consultavo per una ragazza e le chiedevo: «Ma, è bello questo Lucky?». E devo dire che loro asserivano sicure che sì, anche se alla mia perplessa ironia magari avanzavano quegli argomenti sul ‘carisma’; e solo qualcuna più ingiusta andava giù duro: «Un animale».
Dopo il ritiro dai campi di football, si era dato alla professione di trasportatore, in forza della quale aveva conosciuto tutte le padrone di casa cui sgombrava la cantina, ed anche le figlie e le nipoti; ma su tutte aleggiava la Baronessa, una bellissima aristocratica che aveva conosciuto vuotando la soffitta di un palazzo patrizio.
Io l’ho conosciuto proprio al mio insediamento all’Igea. Stava traslocando gli arredi déco della mitica sala corse d’Indipendenza, che andava in quei giorni a chiudere i battenti. Aveva smontato persino i pavimenti. Si muoveva attorno alla cassaforte da tre quintali con la perizia con cui un ingegnere dell’Antico Egitto aveva issato blocchi ciclopici. I turisti gli scattavano foto.
Ed è qui all’Igea, officiando la funzione di cantastorie, nel sacro resoconto delle sue carnali scorribande sulle virtù della Baronessa, che ci elesse partecipi di ciò che egli aveva visto. Più alto che in Blade Runner, più oltre di Roy Batty, aveva visto «dischiudersi docilmente gli sfinteri, onde la carne, in folli mescolanze, pulsava a vita primigenia». Aveva visto «distillarsi da cave recondite il desiderio che si materializzava dalla profondità delle pelvi, e come rugiada all’alba cadeva su di lui sotto forma di gocce essenziali». Non garantisco che si esprimesse esattamente così, ma a questo proposito vale tener conto del famoso Addio, monti del Manzoni.
Doveva essere il giorno dell’eliminazione ingloriosa con la Slovacchia, quando Lucky si trovò presente alla scena della tazzina. Come uno cui venga sottratta una primogenitura, o come provocato da chi pretendeva di essere più bravo di lui, Lucky apostrofò il povero Stanzani con una voce carica di sarcasmo:
«Che cosa credi mai di aver fatto Stanzani? Io, quando la Baronessa ha lasciato la prima volta casa mia, io… IO… ho leccato il bidè!».
Dopo tanto tempo, Lucky è venuto a trovarmi al Bombo. Io gli ho offerto della birra ghiacciata, col velo de la novia, così com’è d’uopo ad un incursore dei Caraibi. Lui mi ha beneficiato di un:
«Ma cosa aspetti a morire?».
Al che l’ho ricambiato:
«Per me, muori prima te».
Allora abbiamo fatto una pubblica scommessa ed abbiamo stabilito una posta. Se fosse morto prima lui, io sarei andato a riscuotere la posta dalla Baronessa, ma non ricordo cosa. Se invece fossi morto prima io, lui sarebbe venuto a riscuotere la posta in San Felice: una Heineken da sessantasei.
Bombo
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