Frammenti del Solferino e del Mirasole Grande – Elegia in sette movimenti (Secondo movimento: Giulianån Tinti e l’appartamento di via Marconi)
«Bisogna essere onesti per vivere fuori dalla legge». [Bob Dylan]
A quel tempo cominciavo a darmi pensiero di certe istanze generali, a nutrire sentimenti socialisti. E nelle chiacchiere con Baccilieri avevo il mio bel da fare portando i miei argomenti, cercando di rispolverare un po’ di storia e un po’ di gergo politico, buttando lì delle frasi tipo che, «nella città Medaglia d’oro per la Resistenza», ci sarebbe stata una specificità bolognese e una tradizione di associazionismo e cooperazione che si facevano oggettivamente solidarietà: Retorica vuota in pasto all’implacabile demolizione di Mauro.
«Egoista, invidioso, falso e prudente, di una prudenza votata a ‘non rimetterci mai’: se non si guadagna non va più bene. Avaro, diffidente, inospitale. Provate a suonare alla porta di un bolognese dopo le 8 di sera e siete, che so, un amico delle vacanze, al 90% non entrerete neppure in casa, ci si vede il giorno dopo. Falso, egoista, intollerante, se rubate una mela da bambino, quello è il battesimo della colpa e siete, per il bolognese, un ladro tutta la vita; se non accettate un lavoro lucroso per altro, siete un coglione e un vagabondo. Comunista e papalino, ti offre da bere solo per dirti che sei un ubriacone, da mangiare mai. Opportunista, grezzo e ignorante, di un’ignoranza travestita che si fa scudo dell’università più antica del mondo: Bologna, città di cultura, ritengo sia la più ignorante d’Italia».
Davvero cominciavo a sospettare che un po’ di colpa ce l’avessero le incipienti libagioni di ‘bianco’, quando ogni espressione che finisse in ‘sociale’ veniva ritorta in accuse di ipocrisia, non per sé stessa (posso garantirlo), ma perché secondo Mauro un’assoluta aridità di cuore avrebbe spiegato il fallimento di tutti gli sforzi che ci si figurava di profondere in questo campo.
Vero è che le tirate di Baccilieri non erano costruite per così dire ‘in astratto’, ma prendevano forza da esemplificazioni di vita, come questa storia di Giuliano Tinti che ci raccontavamo di tanto in tanto e che, anche se nient’affatto risolutiva nel suo intento istruttivo, potrebbe risultare quantomeno divertente, se la raccontassimo ancora una volta.
Giuliano Giulianån Tinti abitava al 22 di Miramonte. Ma non era nativo di lì e arrivò da fuori nei Mirasù, essendo inizialmente ricevuto nel sospetto che non rispettasse i codici: questi, sia detto senza reticenze, consistevano essenzialmente nella regola di non rubare l’uno in casa dell’altro tra gente della stessa via. Giulianån aveva dalla sua un’immensa generosità, tale da potersi dire che «quando ce n’era per lui ce n’era anche per gli altri». Inoltre Giulianån portava con sé una moglie abruzzese, una donna bella, dal corpo forte, che fu la prima meridionale ad entrare nel quartiere, oltre quelle cui abbiamo accennato. Veniva classificata napoletèna ed era di indole talmente affabile ed alla mano da risultare decisiva nell’opera del felice ‘inserimento’ di Giulianån. E quasi al seguito della signora Anna, nei successivi anni Sessanta, la nostra migrazione interna andò via via ‘contaminando’, fino a sostituire del tutto la popolazione più anticamente residente nel rione, come in altre parti della città. Come predicava Baccilieri, il bolognese che «aveva fatto i soldi» cercava di spostarsi dai Mirasoli, e una volta cavatosi fuori andava dicendo che «quelli rimasti son tutti delinquenti».
Dunque, in un periodo in cui non stava in galera, Giulianån aveva accettato un lavoro di tinteggiatura di un appartamento in un palazzo ‘nuovo di trinca’, al tempo della tronfia ricostruzione di via Marconi. Fu così che, un venerdì, pensò di prendere la strada di Piazza e andò sotto i portici del Podestà, dove si teneva il mercato settimanale e tutti i contadini venuti dalla provincia e i commercianti e i sensali contraevano in immenso vociare i maiali, le mucche e anche le case, con regole consolidate che oggi sembrerebbero inconcepibili. Infatti i contraenti si davano la mano, la scuotevano fortemente tre volte: «On, dû, trî», poi il mediatore, con un perentorio gesto dall’alto in basso pronunciava «tàja!», riscuoteva la pizè, cioè la mediazione, e da quel momento il contratto era perfezionato.
Non fu difficile a Giuliånan trovare un acquirente per l’appartamento che stava tinteggiando, anche perché lo propose a un prezzo veramente stracciato che, a quell’epoca, poteva essere di un paio di milioni di lire: un acconto sull’impegno, il saldo alla consegna delle chiavi, la pizè al mediatore e «on, dû, trî, tàja!», e l’appartamento fu bell’e venduto.
Devo rilevare, per inciso, che l’acquirente non era un trimalcione petroniano avido di concludere un affare fin troppo favorevole. Questa è una debolezza che può essere di tutti, anche del nostro, che pare fosse di Zocca, e possiamo lasciare in sospeso l’idea che si eran fatti di lui in quanto, per il bolognese, quelli di fuori non differivano da noi e tra di loro per determinate abitudini o tradizioni o gradazioni di caratteristiche più complesse, ma perché sarebbero stati, semplicemente, piò stòppid.
Di solito, riscosso l’acconto di un affare di quel tipo, Giulianån Tinti spariva dalla circolazione ma, quella volta, condusse invece tutto l’iter come si deve. Intanto finì di tinteggiare l’appartamento, poi ricevette il suo compratore, riscosse il ‘saldo’ consegnando le chiavi e infine si raccomandò di non abitare immediatamente l’alloggio, ma di aspettare una decina di giorni che «al s’assughéss», dandogli cioè il tempo di asciugare. Ed ecco che, passati i dieci giorni, dato che i muri dovevano essere già asciutti, una sera quel tale di Zocca venne giù in Marconi con la moglie per farle vedere l’appartamento nuovo, infilò le chiavi nella toppa, aprì la porta, e si trovò davanti una famigliola che, riunita a tavola, stava consumando quietamente la cena.
«C’sa fèv vuvèter in cà mî?». «Cosa fate voi altri in casa mia?», cominciò ad apostrofarli quello di Zocca?
«Còmm cà sô? L’è cà nòstra!». «Come sarebbe casa sua? È casa nostra!». Rispondevano giustamente quelli, colti nel bel mezzo dell’intimità domestica.
Per farla breve: «Lé ‘l tô lé ‘l mî, l’é ‘l tô lé ‘l mî». «È tuo è mio, è tuo è mio», baruffa, baraonda e, data l’efficienza della giustizia in quei tempi, Giulianån (di nuovo) in galera.
Convenimmo via via, successivamente, che uno come Tinti non ordiva le sue truffe per andare alle Bahamas, come sarebbe successo dopo, ma per rendere caso mai più probabile che nella marmitta potessero cuocere i maccheroni, una volta calata la sera. Mauro Baccilieri aggiungeva poi la considerazione discutibile che Giuliano era un ladro onesto, perché rubava senza fare del male; inoltre, assecondando il suo lato ironico, Mauro trovava che se Giuliano Tinti fosse rimasto in vita, sarebbe stato una specie di Robin Hood, perché avrebbe preso gli appartamenti ai proprietari e li avrebbe venduti a metà prezzo che sarebbe, a ben vedere, circa l’esatto loro valore.
Quanto a me, resto convinto che gli orrendi palazzi di via Marconi battano un tempo diverso dal mio; mentre ciò che mi fa ricordare le epiche gesta di Tinti, che per primo quei palazzi dipinse, sia il rimorso del tempo che mi allontana da lui, e che come il mutevole procedere di un banco di nebbia rende effimero il mondo.
Bombo
Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, istituzioni, luoghi ed episodi sono frutto dell’immaginazione dell’autore e non sono da considerarsi reali. Qualsiasi somiglianza con fatti, scenari, organizzazioni o persone, viventi o defunte, veri o immaginari, è del tutto casuale.
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