Negli anni Settanta ero diventato un fumatore accanito. Avevo preso una dritta così. A ognuno succede di prendere delle dritte. Per esempio, alcuni miei amici avevan preso la dritta di attaccare quanta ‘penna’ respirasse. Avevano, devo dire, ‘i loro problemi anche loro’, ma alla fin fine pure i loro vantaggi.
Cosa c’entra, mi direte, questa cosa delle sigarette coi piedi di Gino? Il fatto è che allora facevo un mestiere diverso, tenevo un ufficio in via del Cestello, la strada esterna alle mura del Mille, quasi all’angolo di via Castiglione, prima del torreggiotto dove, sotto il portico, c’era e c’è ancora una tabaccheria: la tabaccheria di Gino Cappello.
Io Cappello lo andavo a vedere circa una decina d’anni prima, quando giocava nel C.R.A.L. Tranvieri assieme ad un altro ‘reduce’, Pivatelli. L’altro Gino appunto, il quale, da poco, tra il 1961 e il 1963, aveva messo l’anima in quello scudetto del Milan ’62 che avrebbe portato alla prima Coppa dei Campioni italiana. Ti stupiva il modo di giocare di Cappello, ciondolante e all’apparenza scoordinato, un modo di correre che impediva all’avversario di portargli via la palla. La cosa che notavi subito erano i piedi di Gino. Aveva due piedi enormi, che ti chiedevi come fosse possibile mulinarli, a farli pervenire a certe meraviglie: un difensore sbalzato a sinistra e l’altro a destra, e Gino in mezzo che andava in porta. Nella mia frequentazione degli spalti in quell’epoca, ricordo di aver visto fare una cosa del genere soltanto a Rivera, ma una volta sola. Pivatelli aveva invece due piedini piccoli come quelli di una bambina, il che non gli impediva di esplodere certe ‘castagne’ di collo.
Bene, io che le sigarette le compravo di solito a stecche, avevo preso a comprarle più spesso a pacchetto, per avere più occasioni di scambiare quattro chiacchiere a banco con Cappello. Bisogna sapere che Cappello fu il primo al mondo, prima ancora di Mario Corso, a tirate le punizioni ad effetto, con quei palloni di cuoio pesanti di una volta, e la cucitura assassina che se la ricordano tutti: in dialetto bolognese, erano le punizioni cön la vultè, con la curva. Dunque le prime domande erano scontate: «Come facevi Gino a tirare quelle punizioni?».
Bisogna sapere anche che in quel periodo cominciavano ad imperversare i filosofi, di cui il capo era già Massimo Cacciari il quale, alla domanda di cui sopra, sono sicuro senza ombra di dubbio che avrebbe risposto in uno dei suoi trattati: «La necessità dell’immanenza di determinare l’esistenza». O qualcosa di simile. Cappello infatti, con espressione ispirata e ugualmente corretta filosoficamente mi rispondeva: «Mah… non so… io tiravo… chissà… se vede che el piede…». E attenzione che in quel «se vede che el piede» risiede un altro punto che rimanda al cruciale problema filosofico chiamato ‘dell’inizio’ e che, in questo caso, richiama i campetti polverosi degli oratori del padovano…
Chi tagliava più corto erano certi avventori della tabaccheria, che chiudendo a cerchietto il pollice e l’indice e dando un colpetto per aria sentenziavano: «LA CL-ASSE!».
In quello stesso periodo mi aveva preso anche la fissa della storia antica. Passavo alla vicina libreria Minerva e compravo una sporta di libri (per chi abita sotto il Rubicone, la ‘sporta’ è una larga busta per la spesa coi manici). Interrogando Gino Cappello, mi fu subito evidente come il Nostro eroe avesse rivissuto un episodio di duemilacinquecento anni prima, nientemeno che la famosa battaglia di Cunassa, e questo si era verificato nel 1952 allo stadio Comunale di Firenze, non ancora Artemio Franchi. E se non ci credete ve lo racconto nella prossima puntata.
Bombo
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