Da Frammenti del Solferino e del Mirasole Grande.
Minimo prologo
Mauro Baccilieri sono sedici anni che è morto.
Forse mancatore di proponimenti. Nullafacente impossibilitato a fare. Estimatore di Four Roses impagati.
Mio disatteso e coetaneo padre.
L’ho lasciato a patire sulle sedie dei pub notturni, senza dimora, col male mortale di tutte le nazionali senza filtro conclamato nei polmoni. Di lui mi sono rimaste alcune poesie. Belle. Anche se, devo dire, non all’altezza di sovvertire il mondo delle humanae litterae; né so se ce ne fossero, perdute, delle altre in giro.
Non so neanche se sui calpestii del Solferino ci siano ancora pavimenti crepati di cotto, ringhiere di ferro su ballatoi all’addiaccio e calcinacci sulle colonne di portico che si ricordino ancora di lui.
Dall’universo cielo, sciami di meteore vengono di continuo a bruciare. A volte qualcuna recherà pure, nella sua irregolare materia, vene d’oro e conchiusi diamanti. Ma vengono tutte a bruciare lo stesso, senza che lo sappia nessuno.
Prima parte – L’altrove di Mauro
È per via che l’innocente realtà delle cose, confitta all’inveterata abitudine umana di violarne l’ethos, rende infine manifesta un’ignota poesia, che del nefando titolo scelto chiedo clemenza. Del resto Mauro così si espresse nel suo resoconto, onde ogni giro di parole sarebbe tradirne lo spirito.
Questa è una storia che in una certa Bologna una volta la conoscevano tutti, anche se turpe abbastanza per rendere difficile a chiunque di trarvi una qualche morale, e risale al tempo in cui Mauro Baccilieri, ogni tanto, ancora cantava nei piano bar.
«C’è da fare una serata al Grand Hotel di Rimini», aveva comunicato di corsa Budellacci il batterista.
Ero andato a prelevare Mauro dalla sua stanza al Solferino di fianco a Trebbi che era passato mezzogiorno, siccome dovevamo andare a vedere un Bologna-Juve con tappa ai Tribunali, e scendendo per il breve tragitto Mauro aveva soffocato conati piuttosto oscenamente fino al bancone, dove ordinò a Luciano un Baby e si calmò.
«Ci sono», aveva risposto Mauro, che non aveva un liro in tasca.
Però non andò a Rimini col furgone del gruppo, perché non gli piaceva parlare con gli orchestrali che îran stóppid, così mi lasciò il biglietto omaggio, si fece portare in stazione da Menarini, quindi partì in treno da solo, portando seco i suoi strumenti che erano i suoi jeans, la sua camicia di jeans, i suoi occhiali neri a specchio e la sua voce. E da solo filando nello scompartimento per la campagna, al battente binario delle rotaie, sonnecchiò fino alla latitudine del monte Titano, l’azzurra vision, già luogo memorabile di quella storia di suo padre che ho raccontato da un’altra parte.
E io non c’ero ma sto pensando quello che Mauro pensava e vi assicuro che pensò così come vi dico e cioè che, benché nato nella cupa e porticata Solferino, come gli vennero incontro le aie, i casolari ed i pioppeti nel tramonto della Romagna autunnale, tra il guazzabuglio di schedine di Totocalcio, etichette di Four Roses, il culo della Francesca e acuti di swing che gli affollavano il cervello, presagì l’apparire dell’oro nel grano col verdolino nuovo dei tralci, e finì per dondolarsi su queste parole: C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico: io vivo altrove…
L’espressione più bella della letteratura italiana, amava pontificare quando passava repentino dal sarcasmo alla serietà: ma sommessamente, a voce bassa. E la suggestione di aura scolastica, lo accomunava al nero sonno del terzo grappolo, col suo acuto dolore, muto e già pianto.
E dall’altrove Mauro giunse al Grand Hotel di Rimini, dove si accreditò alla reception come il cantante in cartellone della serata, mentre si andava presentando idealmente al pubblico girando attorno a sé lo sguardo intento, sotto la testa chiomata.
Fu lì che incontrò la Cicciona.
Bombo
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